Caro direttore,
che il bivio del Mes si sarebbe rivelato insidioso per Giorgia Meloni era previsto: ma non fino al punto in cui la vicenda si è intricata e incagliata. Il rinvio di un Consiglio dei ministri – un’ora prima della convocazione – “per ragioni personali” della premier è indubitabilmente fuori dal galateo istituzionale: e ha reso almeno in parte vano, venerdì, anche l’effetto della (quasi contemporanea) visita a palazzo Chigi della presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola. La quale, peraltro, ha provato a spezzare una lancia a favore dell’opportunità di lasciare all’Italia ogni “sovranità” su tempi e modi della decisione parlamentare italiana sul Meccanismo europeo di stabilità.



Non vi è dubbio che lo scoglio-Mes stia moltiplicando le tensioni interne al centrodestra, e che questo avvenga immediatamente dopo la scomparsa di Silvio Berlusconi, “padrone” di Forza Italia. E le accuse più o meno velate di “filibustering” a Matteo Salvini hanno una portata alla fine limitata: è sui grandi temi d’agenda (e il Mes certamente lo è) che gli “junior partner” di una coalizione hanno l’occasione di ribadire o spostare paletti. Non da ultimo: la Lega – in parte nel volto del ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti – sta tenendo nel caso specifico una posizione “responsabile”. Diversa da quella fortemente dialettica con la Ue della passata legislatura, e vicina invece a quella – altrettanto “responsabile” – che la leader FdI sta maturando su altri fronti caldi (ad esempio i flussi migratori). È del resto questa virata verso una strategia di destra conservatrice che spinge Metsola (popolare maltese, possibile “candidata di punta” del Ppe a prossimo presidente della Commissione Ue) a render visita a quella che un anno fa era ancora considerata una leader della destra populista “unfit” per la governance europea.



Cosa sta spingendo Meloni a tener duro sul Mes? Presumibilmente non solo questioni spicciole e interne di “politica politicata”. Più verosimile che la premier italiana giudichi il Mes l’unica vera carta negoziale con Bruxelles nel tumultuoso avvicinamento alle elezioni europee fra un anno. Un argomento bilama: sul fronte domestico la leader di FdI non può e non vuole recedere da un cavallo di battaglia presso il suo elettorato “core”. E in attesa di un voto che – nei pronostici – dovrebbe rafforzarla a Strasburgo, confermando la cifra di primo partito in Italia, Meloni punta prevedibilmente a spendere la carta-Mes al tavolo del capi di Stato e di governo: quello che avrà l’ultima parola anzitutto sul ripristino dei parametri di stabilità.



È un dossier complesso, che difficilmente vedrà la luce alla scadenza fissata per l’inizio del 2024. Ed è una partita nella quale gli interessi dell’Italia ad avere parametri nuovi e percorsi di stabilizzazione finanziaria evoluti, stavolta non sono singoli, ma confinano anzitutto con quelli della Francia: mentre il tradizionale rigorismo tedesco pare nel 2023 più d’impaccio che di aiuto per il cancelliere socialdemocratico Olaf Scholz, stretto fra le opposte vedute dei partner liberali e verdi, con il Paese in recessione tecnica, al centro di una Ue morsa dall’inflazione.

Da questa prospettiva, l’apparente “massimalismo” anti-Mes di Meloni qualche razionalità pare averla. Ma rimanendo una scommessa molto rischiosa: per il Paese.

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