Caro direttore,
sarà curioso osservare se al magistrato contabile italiano Marcello Degni (o al suo diretto superiore, il presidente della Corte dei Conti Guido Carlino) toccherà la stessa sorte della presidente della Harvard University, Claudine Gay.

Quest’ultima, l’altra sera, è stata costretta a dimettersi dopo un mese di campagna feroce da parte di alcuni grandi donatori israeliti, intolleranti della tolleranza della presidente per le proteste pro-palestinesi nel campus americano più antico e prestigioso. Gay – convocata al Congresso – aveva difeso la libertà di parola garantita da oltre due secoli dal Primo Emendamento della Costituzione. Ora non è imprevedibile che un nuovo vertice imponga ad Harvard – storico “santuario” della cultura liberal statunitense – un bavaglio di sanzioni e divieti a studenti e docenti critici verso la controffensiva militare di Israele a Gaza dopo il 7 ottobre; e verso il sostegno garantito dalla Casa Bianca.



Per Gay – donna afro, politologa vicina ai “dem” nell’ateneo che ha laureato John Kennedy e Barack Obama – è maturato una sorta di brusco contrappasso: era stata infatti designata all’inizio del 2023, al culmine di una lunga culture war in nome dell’azione affermativa pro diversità-eguaglianza-inclusione. Ma al bivio fra Black Lives Matter e Bibi Netanyahu (alleato storico di Donald Trump) i sostenitori israeliti di Harvard non hanno mostrato esitazioni: neppure all’inizio di una difficile campagna elettorale per il presidente Joe Biden. Gli interessi nel gioco di forza geopolitica in corso hanno meritato con tutta evidenza l’affermazione esemplare di un divieto assoluto di critica verso lo Stato ebraico. Alla costituzione materiale Usa è stato dunque apportato in corsa una sorta di emendamento che ha fatto un fascio politico-culturale di antisionismo e antisemitismo, non senza che sulla bilancia venisse posto subito e per intero il peso politico dei miliardi di dollari accumulati nei decenni nei ricchissimi endowments delle grandi università private.



Il principio del free speech è contemplato da 76 anni anche dalla Costituzione italiana: senza restrizioni di sorta. Ed è dietro questa affermazione che sono innervate in via implicita difese e autodifese del consigliere Degni, finito nel mirino della maggioranza di centrodestra per aver lamentato su X (Twitter) “Potevamo farli sbavare di rabbia sulla manovra”. Il magistrato si è dunque riservato una piena libertà di parola ed espressione politica, senz’alcuna preoccupazione per il suo ruolo di imparziale “servitore dello Stato” direttamente preposto alla verifica di legittimità degli atti di spesa pubblica decisi dal governo.



Di più, Degni è parso intervenire – in via collaterale ma non meno rilevante – su una distinta questione di calda attualità politica: chiaramente contro la cosiddette “norme-bavaglio” sulla pubblicazione dei provvedimenti adottati dalla magistratura inquirente. Degni sarà ora colpito dal nuovo “spirito del tempo” che aleggia fra Gerusalemme – unica democrazia nel Medio Oriente – e gli Stati Uniti, il grande hub globale della liberaldemocrazia?

Pare difficile, in uno scenario italiano in cui le parti reali paiono invertite. In Italia a essere sostanzialmente intoccabile – da decenni – è la magistratura di ogni ordine e grado: che ha spinto la sua autonomia costituzionale alla dimensione di “Stato nello Stato” (di Deep State nel  gergo dei liberal di Harvard). A essere “obbligatorio” appare semmai oggi il diritto quotidiano di tribuna mediatica – senza contraddittorio – acquisito via via da alti magistrati in carica o in ritiro su grandi temi di politica nazionale. Mentre resta usuale il passaggio diretto di magistrati (quasi tutti di una singola area politica dichiarata) dalle stanze del potere giudiziario alle alte cariche dello Stato.

E troppo diverso è infine il peso di una maggioranza parlamentare democraticamente eletta rispetto al potere dei miliardari – americani e non – capaci di finanziare una cattedra prestigiosa con l’etichetta della propria famiglia. Salvo poi pretendere di concedere o negare discrezionalmente la libertà di parola, ricerca e insegnamento a docenti e studenti. E di cambiare la “costituzione materiale” negli States: anche sconfessando i mantra del politicamente corretto professati fino al giorno prima.

Resta, da ultimo, una curiosità “nella curiosità”: cosa pensa – di entrambi i casi – Elly Schlein? È la leader del principale partito d’opposizione: quello che secondo Degni – “economista deluso” – avrebbe dovuto per primo far “sbavare di rabbia” la maggioranza nella discussione politica sul budget annuale, massimo atto di governo. Ma Schlein è anche cittadina americana, già stagista nelle campagne elettorali dell’harvardiano Obama, nonché figlia di un politologo americano-israelita che ha mosso i suoi primi passi alla Rutgers University del New Jersey; non nel “cerchio magico” della Ivy League, ma comunque nelle stesse coordinate geografiche della East Coast. E negli anni 60 Schlein senior marciava convinto assieme ad altri studenti e professori contro la guerra americana in Vietnam (oggi invece ha una posizione pensosa su chi contesta a Israele un bellicismo nemico della soluzione “due popoli/due Stati” nei Territori).

Comunque: cosa pensano Schelin padre e figlia dei movimenti studenteschi pro-palestinesi nel 2023? E che opinione si è formato il professor Schlein riguardo la rimozione sommaria della sua collega di Harvard?

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