Discontinuità. Una parola dall’alto valore simbolico, ma che in politica è ormai ridotta a essere strumento della scalcinata panoplia dei politici di mestiere, che nei momenti decisivi della loro carriera devono ammantare con slogan ad effetto il vuoto di ideali in cui da tempo sono precipitati. Un effetto secondario della mancanza di una visione strategica, che condanna la classe politica a un tatticismo esasperato, il cui obiettivo è la semplice conquista del potere. Cosa fare del potere, una volta raggiunta la poltrona, è un problema che non si pone. Basta alzare il telefono e ascoltare la voce di chi conta davvero.



Da tempo i politici di professione hanno abdicato alla funzione che dovrebbe caratterizzare la loro azione; sono ormai degli attori che recitano sul palcoscenico che i media approntano quotidianamente per un pubblico sempre più disincantato e sfiduciato. Del resto, la società dello spettacolo ha bisogno di chi scriva il copione, e la classe politica attuale non ha le capacità né la voglia di diventare protagonista del proprio destino.



Il governo nato dalla più surreale delle crisi sembra avere molte delle qualità richieste ai politici contemporanei. Lo spettacolo di arte varia di una compagine governativa che fa sembrare i componenti di un qualsiasi governo Goria degli statisti di alto livello è appena incominciato, ma mi perdonerà il lettore se nelle righe che seguiranno troverà qualcosa che si avvicina a un giudizio definitivo maturato prima che gli eventi prendano corpo.

Max Weber sosteneva che il vero politico, per definirsi tale, non doveva conoscere la mancanza di una “causa” giustificatrice e della responsabilità che porta con sé il suo ruolo. Quando questi due elementi vengono meno, avanza il vero peccato mortale del politico: la vanità.



Probabilmente, se Weber avesse potuto vedere le vicende della nostra classe politica, avrebbe cambiato idea, forse sarebbe arrivato alla conclusione che la vanità è un lusso che i nostri politici non si possono permettere.

A osservare i nuovi ministri c’è da rimanere stupiti dal grigiore che esprimono. Qualche funzionario di partito che ha fatto carriera all’ombra di qualche politico e che ora assurge al ruolo di “figura di garanzia”, per il semplice motivo che non si opporrà mai alle decisioni di Bruxelles; delle vedette da social che in poco tempo hanno raggiunto lo status di nuova speranza della sinistra; apprendisti stregoni che progettano per il Mezzogiorno un’industrializzazione senza industria e comprimari che proveranno a recitare nel modo migliore la parte che gli è stata assegnata.

Ciò che stupisce è che una certa pubblicistica che da tempo blatera circa l’importanza di classi dirigenti di valore abbia salutato con gioia l’avvento di una classe politica che, per dirla con Weber, non ha né una causa giustificatrice né alcuna responsabilità, in quanto del tutto deresponsabilizzata dall’azione della nuova Commissione europea, che forse, e non è certo, elemosinerà un po’ di flessibilità a un paese che ha ritrovato il senno.

Solo la miseria di un certo neo-istituzionalismo che confonde una classe dirigente con un gruppo di esecutori subalterni poteva salutare la nascita del nuovo governo come l’avvento di un nuovo e autorevole gruppo dirigente.

Il discorso con cui il premier Giuseppe Conte ha chiesto la fiducia in Parlamento ha ricordato ad alcuni osservatori lo standing di Mario Monti; a ben vedere, però, parliamo di due esperienze del tutto diverse. Avendo del tutto abdicato alle sue funzioni, la classe politica ha ormai rinunciato a competere con le tecnocrazie, le quali, se prima avevano il buon gusto di metterci la faccia, adesso preferiscono affidare alla politica gli oneri che comporta il proscenio.

Non è un caso che questa operazione si stia consumando grazie a un’alleanza con il M5s, che rappresenta la più autentica e feroce incarnazione del rancore sociale e dell’antipolitica. In molti si sono interrogati sulla reale natura dei grillini, ma chiedersi se sono una forza più vicina alla sinistra o alla destra è un esercizio inutile. Il M5s è l’espressione di un radicale nichilismo politico, del desiderio di eliminare del tutto le prerogative dei politici di mestiere; del desiderio dei componenti di una società atomizzata e disgregata di affidarsi a poteri a lei estranei che le risultano se non più giusti, più accettabili. Meglio affidarsi a dei tecnocrati e alla Rete vista come portatrice di una tecnologica e assolutizzante Volontà generale piuttosto che a dei politici disonesti e arroganti.

Non è forse questo il mantra che ha alimento l’anti-politica? Un progetto radicalmente eversivo, che punta a essere il vuoto contenitore da riempire con istanze anti-sistema e rabbia sociale, che in base alle convenienze del momento vanno o neutralizzate o sprigionate.

Che l’esercito dei no-vax, dei complottisti delle scie chimiche e dei microchip sottopelle e degli irriducibili giustizialisti adesso si trovi a governare con quello che si auto-rappresenta come il volto presentabile della politica, fa capire su quali paradossi poggi la nuova maggioranza. Un’alleanza innaturale fra il partito-sistema, che della vecchia Dc non ha nulla se non l’estenuante gioco delle correnti interne, e un movimento anti-sistema sul quale fino a poco tempo fa i maggiori commentatori si interrogavano se fosse una forza eversiva o meno.

Che sia stato ciò che rimane del Pd ad aver abbracciato un tale progetto rende l’idea dell’insipienza e dabbenaggine del suo personale politico. Qualora il suggello ideale di questo patto dovesse essere la riduzione dei parlamentari, assisteremo al suicidio volontario di una classe politica in nome della deresponsabilizzazione e di una retorica che ha accompagnato la nascita di questo governo basata sull’aver sventato la minaccia del fascismo e l’aver riconquistato la fiducia dell’Europa e dei mercati internazionali. Un discorso che può funzionare per qualche giorno e per una compagine che nasce dall’alleanza dei lettori di Repubblica e del Fatto Quotidiano e quindi sotto il segno dell’indignazione permanente e della superiorità morale con cui flagellare l’opinione pubblica, ma non può servire a salvare il Paese.

Se il centro dell’arena politica al momento è occupato da protagonisti improbabili, ai margini rimangono quelli che al momento sono i due che per carisma e capacità si avvicinano a quello che dovrebbe essere un politico: Salvini e Renzi. Molto probabilmente il futuro della compagine governativa dipende dalle mosse dei due Matteo, ma per incidere realmente dovrebbero riuscire a fare qualcosa che al momento non risulta essere nelle loro corde. Senza partiti davvero nazionali alle spalle e senza una tradizione politica da cui attingere un’idea compiuta per il Paese sembrano destinati a ricorrere al tatticismo più esasperato. Senza una “causa” il politico diventa un demagogo, che per usare le parole di Weber è destinato a confondere il potere con la sua apparenza. Il falò delle vanità in cui si confonde l’approvazione con il consenso, i social con la realtà e il soddisfacimento della vanagloria con il successo.

Mentre questo governo muove i primi passi di quello che sarà un breve percorso, la vera politica fa le sue mosse. Draghi avvia un nuovo Qe, Francia e Germania ridefiniscono i rapporti di forza all’interno del patto di Aquisgrana, il Regno Unito aspetta di capire come andrà a finire Brexit, il Mediterraneo aspetta il suo nuovo padrone e in Italia si fa passare la nomina di Gentiloni, che di fatto è sotto la tutela di Dombrovskis, come un grande successo di politica estera.

Chi ha uno spiccato senso dell’umorismo potrà godersi i prossimi mesi, aspettando il prossimo salvatore della Patria, che celebrerà il suo trionfo sui resti della classe politica.