Più rifiuti, meno internet: potrebbe essere lo slogan che riassume il paradosso che si sta consumando a Reggio Calabria, dove si celebra l’autodafé tra due fenomeni contemporanei, l’effetto Nimby e il principio di precauzione estremizzato. Ma veniamo ai fatti. Il sindaco di Reggio Calabria ha firmato un’ordinanza che vieta l’installazione delle antenne 5G in tutta la città, per, come spiega compiaciuto sul suo profilo social, “tutelare la salute di tutti noi”. Già suona bizzarro quest’allarmismo che non trova un solido appiglio scientifico, giacché solo per citare l’agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Iarc), nella classificazione delle sostanze con rischio cancerogeno, le frequenze elettromagnetiche sono inserite nel gruppo B2 ossia tra gli elementi che potrebbero essere cancerogeni e dove si trovano circa 300 elementi, diversi della nostra quotidianità, come l’acido caffeico, l’aloe vera, il bitume, la benzina, ecc. Ovviamente – e siamo d’accordo – la prevenzione è fondamentale. Quindi iper-cautelativamente, l’Italia ha imposto dei limiti alle radiofrequenze di circa un ordine di grandezza più stringenti rispetto agli standard europei che sono già tra i più bassi al mondo.



Come Giuseppe Falcomatà, primo cittadino di Reggio Calabria, sono quasi 500 i suoi colleghi che, da Nord a Sud, si sono imbarcati in strane battaglie contro le nuove tecnologie. Un rifiuto del progresso più ideologico che logico, che si è ripetuto nella storia dell’umanità e che con il senno del poi, ci appaiono risibili come il rapporto dell’accademia di medicina di Lione il quale incolpava, nel 1835, la velocità degli spostamenti in treno all’origine di patologie respiratorie.



Vietando l’installazione di antenne 5G, il Sindaco della città che ospita i Bronzi di Riace non solo travalica le sue prerogative (il DL Semplificazione mette un argine a ciò), ma lede le legittime decisioni dello Stato italiano che ha venduto le frequenze e pregiudica le opportunità di crescita e sviluppo dei suoi concittadini. Mentre Falcomatà si mobilita per proteggere i suoi concittadini da fittizi rischi da elettrosmog, non si occupa invece di garantire i servizi essenziali.

Da settimane, le strade di Reggio Calabria sono diventate delle pattumiere a cielo aperto. L’emergenza rifiuti non è addebitabile unicamente a lui, ma è il retaggio del pilatesco strabismo di politici e amministratori pubblici nella gestione e smaltimento dei rifiuti. Piuttosto che entrare in conflitto con il solito comitato locale, manifestazione del fenomeno Nimby (Not In My Back Yard, non nel mio cortile), pervicace espressione dell’Italia dei veti e motore del costo del Non Fare, le autorità preferiscono ignorare la penuria di impianti di compostaggio e termovalorizzatori. È preferibile cullarsi nel ritornello dell’economia circolare, confondendo tra modalità di raccolta differenziata e la rete di centri per il loro trattamento. Perché il ciclo dei rifiuti non termina con il conferimento nel cassonetto, deve proseguire a valle con un’infrastruttura adeguata. Ce lo chiede l’Europa.



Entro il 2035 la ripartizione prevede riciclo per il 65% dall’ammontare dei rifiuti (obiettivo che richiede, considerando gli scarti non trattabili, un’effettiva raccolta differenziata dell’80% contro il 45,2% della Calabria); dal 25% si recupera energia con termovalorizzatori (che sono gli inceneritori moderni che si trovano in giro in Europa spesso con tecnologia italiana), mentre in discarica deve finire solo il 10%.

Purtroppo l’Italia conferma la sua vocazione all’export anche in questo settore: la spazzatura italiana bruciata in termovalorizzatori all’estero produce energia pagata dagli italiani; in Italia, dolosamente bruciata nei roghi per strada, produce diossina respirata dagli italiani, comunque salvi da supposto pericolo di elettrosmog.