In questa fase di “ricomposizione” dell’Europa e dei suoi rapporti con Stati Uniti e Cina è inevitabile cercare di capire quale sia la situazione della Germania. Il rallentamento tedesco di questi ultimi trimestri è molto pronunciato e questa non è una buona notizia anche per pezzi importanti del nostro sistema industriale. L’equivoco più comune è quello di minimizzare la portata di questo fenomeno spiegandolo come una crisi “momentanea” dovuta alle particolari condizioni dell’economia globale. La trade war, che prima o poi finirà, l’economia globale, che prima o poi ripartirà, alla fine faranno terminare anche i problemi della Germania che tornerà quel campione assoluto di export e disciplina fiscale che abbiamo conosciuto negli ultimi due decenni. Invece non è questo lo scenario.
La Cina non ha più bisogno delle esportazioni tedesche e tanti indicatori suggeriscono che Pechino abbia imparato a fare quello che prima importava da Berlino. Nessun Paese come la Germania ha scommesso nell’ultimo decennio sulle esportazioni verso la Cina. L’industria auto, il gioiello del sistema industriale tedesco, è entrata in una fase di profonda trasformazione che riguarda anche profondi cambiamenti nella mobilità delle persone; le regole che impongono un’obsolescenza artificiale non cambiano i trend veri. Non solo la guerra commerciale, ma è la manifattura in generale che oggi si basa su catene più corte e più vicine al consumatore; sono due cambiamenti che mettono in difficoltà gli esportatori. Quello a cui assistiamo in questi mesi non è un episodio più o meno passeggero dell’economia tedesca, ma l’inizio di un declino strutturale o quanto meno di un cambio di paradigma strutturale in cui la Germania tutta esportazioni e disciplina fiscale entra in crisi e ci rimane per molti anni.
Aggiungiamo che il peso geopolitico tedesco è minimo con un esercito e una spesa per la difesa che non sono neanche minimamente all’altezza della sua attuale potenza economica. La potenza “geopolitica tedesca” si è sostanzialmente espressa contro i suoi partner europei e in primis l’Italia che nel 2011 ha subito il costo del mantenimento di un modello, quello delle esportazioni con valuta artificialmente bassa e zero stimolo fiscale, che è entrato in crisi già con Lehman. Angela Merkel è stata raccontata con toni entusiastici, ma non siamo così sicuri che i toni saranno gli stessi tra dieci o venti anni. Se la crisi tedesca è strutturale le conseguenze politiche potrebbero essere traumatiche sia in Germania che in Europa.
Oggi è Macron che parla per conto dell’Europa, forte di un modello che è, in un certo senso, l’opposto di quello tedesco. Alla Germania ovviamente non fa piacere, ma è del tutto possibile che la crisi tedesca non migliori la situazione.
Oggi la Germania avanza la proposta di unione bancaria e ci dovremmo chiedere quanto questo slancio possa sopravvivere a una politica, tedesca, che si incattivisce e che non sembra segnalare una grande volontà di condivisione. L’Europa come la conosciamo è morta tra il 2008 e il 2012 quando ha risposto alla crisi Lehman con quella “selettiva” e assurda dei debiti sovrani che ha garantito al modello un po’ di vita. Tralasciamo per carità di patria le decisioni della Bce del 2008.
L’Italia è oggi in crisi irreversibile e può solo scegliere il male minore che significa scegliere chi nella prossima crisi certa, la cui unica incertezza è la durata, possa avere più bisogno di noi. Il problema vero è che oggi siamo radioattivi per tutti e soprattutto siamo inaffidabili: dall’Ilva fino ad alleanze secolari buttate alle ortiche per abbracci mortali con i nostri nemici naturali o dittature che ci concepiscono come mero mercato di sbocco. Questo Governo ha scelto Francia e Cina. Rimaniamo perplessi.