Enrico Letta è stato bersaglio di qualche ironia per aver scelto il terreno della gender equality per la sua prima battaglia di leader del Pd: terreno troppo intangibile, sofisticato e autoreferenziale – secondo più di un osservatore – per un’Italia in pandemia e recessione. Tema insidioso quanto il voto ai sedicenni e soprattutto lo “ius soli”: quest’ultimo già perdente alle politiche 2018.



Ci ha pensato però Stefano Folli su Repubblica, a rammentare che la “questione rosa” si è rivelata per Letta un immediato strumento di intervento politico. Gli ha consentito di pilotare “con pensiero laterale” un primo ricambio interno al Pd, per incarichi non marginali come quelli dei capigruppo parlamentari. Ma, soprattutto, porre un accento prioritario sullo spazio alle donne dem sta consentendo al neo-segretario di ridisegnare l’approccio del partito al voto amministrativo nelle grandi città: primo ma già decisivo banco di prova per il nuovo corso Pd. 



Sarà certamente una sfida impegnativa selezionare quante più possibili candidature femminili con chance minime di accesso ai ballottaggi: facendo i conti anche con il fatto che a Roma e Torino sono in scadenza due “sindache” M5s (e Virginia Raggi per il momento insiste a voler cercare la rielezione a Roma). Ma vi sono pochi dubbi che il “filo rosa” – in apparenza parecchio ingarbugliato nel politically correct mediatico – possa dipanare un’intera strategia politico-elettorale. 

Basta osservare la scena politica corrente nel Paese. Sarà una coincidenza ma la forza più solida nei sondaggi è FdI e la sua leader – la 44enne Giorgia Meloni – ha acquisito un profilo tale da essersi imposto anche per la guida della formazione europea Conservatori & Riformisti. I due partiti che invece hanno conquistato tre anni fa una clamorosa vittoria elettorale – M5s e Lega – avevano e hanno tuttora un’indubbia configurazione “maschilista”.  



A parte la leadership carismatica (e comunque poco intonata al femminismo) di Beppe Grillo, il match per la candidatura 2018 si è giocato fra Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista, mentre Giuseppe Conte è stato due volte premier prima di venire ora preconizzato alla guida del partito. Reggente è stato Vito Crimi e sono uomini i due capigruppo a Camera e Senato. Sia nel Conte 1 che nel Conte 2 sono state assegnate a donne grilline alcune poltrone ministeriali non marginali: la Difesa a Elisabetta Trenta, il Lavoro a Nunzia Catalfo, l’Istruzione a Lucia Azzolina. Tutte esperienze, per diverse ragioni, non fortunate: a riprova che M5s non è (almeno non è ancora) “un partito per donne”, una forza politica capace di attrarre e valorizzare talenti politici femminili. Egualmente, nessuna delle due “sindache metropolitane” – Raggi e Chiara Appendino a Torino – si è mostrata in grado di concludere un quinquennio positivo. 

La Lega stessa non ha molto sangue rosa nelle sue vene. Attorno a Matteo Salvini non spiccano nel partito identikit femminili forti, almeno del profilo mediatico che ebbe per un attimo Irene Pivetti nella Lega di Umberto Bossi. L’unica “governatrice” leghista è Donatella Tesei in Umbria: eletta nel 2019 fuori dalla roccaforte settentrionale (dove invece la Lega schiera solo governatori, propri o di Forza Italia). Erano femminili entrambe le candidature del centrodestra leghista agli ultimi e combattuti voti regionali in Emilia-Romagna e Toscana: ma si sono rivelate realmente competitive. Nel governo Conte 1, a fianco del vicepremier non mancava una figura come quella di Giulia Bongiorno alla Pa, ma non era una leghista “doc”. La veneta Erika Stefani alle Regioni è rientrata ora alle Disabilità nel governo Draghi e non è certo la sua presenza che può fare la differenza sul piano delle “gender equality”. Sono maschili i due uffici di capigruppo parlamentare. Dai grandi o medi municipi del Nord controllati dalla Lega non si è per ora fatta strada alcuna amministratrice: spesso neppure sulla ribalta regionale.      

Forse non si è preso un rischio troppo alto, Letta decidendo di mettersi subito alle calcagna della Meloni sulla pista rosa (cioè anzitutto del voto delle donne alle donne). E prendendo subito un metro di vantaggio – all’interno della maggioranza Draghi – su Lega e M5s. 

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