Piercamillo Davigo voleva “restare” al Csm non diversamente da come Giuseppe Conte vorrebbe “restare” a Palazzo Chigi per un’altra mezza legislatura, dopo esservi “restato” per la prima. A differenza del premier, l’ormai ex magistrato era stato democraticamente eletto dai suoi colleghi, ma giunto alla soglia dei 70 anni – e quindi inderogabilmente obbligato a lasciare la toga – pur di “restare” avrebbe voluto derogare addirittura un articolo della Costituzione: in via breve, nel proprio esclusivo interesse.



Ha impegnato l’intero Csm sul suo caso, Davigo: battendo più che virtualmente i pugni sul tavolo dell’organo di autogoverno del terzo potere dello Stato. Per poter continuare un potere pubblico a titolo personale e autoreferenziale: mentre la reputazione dei magistrati italiani è in crisi drammatica per il “caso Palamara” e il suo portato di abusi istituzionali. Avrebbe voluto continuare a propugnare da magistrato – in uno stato di diritto costituzionale – la tesi politica che l’Italia è un Paese popolato di “delinquenti non ancora scoperti”. Nel quale l’unica “riforma” possibile appariva l’affidamento alla magistratura di poteri eccezionali al fine di “correggere gli errori della democrazia” (la sentenza è di Antonio Ingroia, fino all’ultimo supporter del collega Davigo).



È contro questa pretesa – in massima misura anti-democratica – che la votazione sul “caso Davigo”, lunedì al Csm, ha avuto uno sviluppo quasi senza precedenti. L’intero Consiglio di presidenza (il vicepresidente David Ermini e il primo presidente e il Pg della Corte di Cassazione, membri di diritto del Consiglio) ha partecipato al voto e si è espresso compatto contro la permanenza di Davigo. I loro voti sono stati decisivi per l’esito numerico (13 contro Davigo, 11 a favore, espressi o via astensione), ma prima ancora nell’avvertire il Csm – frantumato fra appartenenze politiche e giudiziarie – di quale fosse l’orientamento del presidente, lo stesso Capo dello Stato Sergio Mattarella. Che non è fisicamente intervenuto alla sessione – come prevede da sempre il galateo istituzionale – ma ha pesato sulla sua conclusione in modo visibile, determinante, per certi versi drammatico, anche se evidentemente imposto dalle circostanze. Cioè da Davigo, che al Quirinale è inequivocabilmente parso intenzionato a lacerare lo Stato repubblicano, portandone un pezzo fuori dalla legalità democratica.



Voglia di diritto eccezionale a fini di potere personale, utopie populiste indirizzate verso svolte post-democratiche: sono sempre di più coloro che – a prima risposta immediata – collocherebbero in questo format il premier Conte. Il quale – come Davigo – pare muoversi ormai da tempo come se non dovesse rispondere ad alcuno – tanto meno alla legge – del proprio governo fatto ormai esclusivamente di “decreti della Presidenza del Consiglio”. Nell’elaborazione dell’ultimo – secondo le ricostruzioni giornalistiche – ha deciso misure di grave emergenza sanitaria contro il parere del suo ministro della Salute. Nell’annunciarle in diretta tv a reti unificate ha comunicato che l’Italia è sfavorevole al Mes senza aver mai formulato la posizione in Parlamento (anche se una risoluzione pro Mes di FI è stata respinta alla Camera lo scorso 14 ottobre anche con i voti del Pd).

Almeno Davigo aveva alle spalle quarant’anni di carriera giudiziaria: Conte continua invece a guidare il Paese da non eletto: salvo che per la fiducia dei parlamentari M5s, Pd, Leu e Iv. Chissà se supererebbe un esame parlamentare con il “metodo Davigo”. Quello fatto rispettare lunedì nel “Parlamento dei magistrati” dal suo presidente, che è il garante costituzionale ultimo dell’intera Repubblica.

P.S. La decisione di chiedere al governo il coprifuoco notturno ha visto allineati, l’altra sera, il presidente leghista della Regione Lombardia, Attilio Fontana, con i sindaci Pd di Milano, Beppe Sala; Bergamo, Giorgio Gori; e Brescia, Emilio Del Bono. Nella sostanza hanno seguito le orme del governatore Pd della Campania, Vincenzo De Luca, che aveva giudicato in anticipo lenta e inefficace la risposta di Palazzo Chigi alla seconda ondata Covid. Basta questa istantanea a fotografare il discredito in cui è precipitato il potere esecutivo nel Paese. Quasi quanto il potere giudiziario dopo i casi Palamara e Davigo.