Per il Partito di Conte sembra giunta l’ora della verità. Che il ministro dell’Istruzione, Lorenzo Fioramonti, confermi o meno le sue dimissioni, che sia lui a fondare – qui e ora – il “partito del premier” appare alla fine secondario. Dell’operazione – virtualmente incubata già dal ribaltone di agosto – si chiacchiera alla luce del sole da settimane. Tanto che il varo stesso della manovra ha presto perduto ogni minimo contenuto politico-finanziario, per ridursi a mero scudo-vincolo per la sopravvivenza dell’esecutivo e ad atto di semplice rispetto formale verso una scadenza Ue.
Lo stesso “caso Fioramonti” appare di per sé sintomatico: un minuto dopo – ma soltanto dopo – aver votato la manovra in Consiglio dei ministri, il titolare del Miur ha sbattuto rumorosamente la porta e – assieme al premier – ha lasciato correre le voci di una scissione in M5s. Eppure è stato il movimento grillino a indicare entrambi nel governo. Era stato Conte 2 a millantare una flessibilità Ue al 3%, poi rivelatasi immaginaria. Ed è stato M5s a imporre la riconferma del reddito di cittadinanza, che ha riassorbito il grosso delle risorse di bilancio. Ma Fioramonti si è sentito comunque autorizzato ad “auto-cacciarsi” da governo e partito, lamentando il taglio dei fondi all’università e la sua delusione per M5s a guida Di Maio. La campagna elettorale, però, incalza: anzitutto quella per le regionali in Emilia-Romagna, a fine gennaio. E vi sono pochi dubbi che nelle prossime settimane a Bologna e dintorni andrà in scena una contesa tanto inedita quanto decisiva per i futuri equilibri politici del Paese.
Le forze “di opposizione all’opposizione” (tali sono nei fatti quelle che sostengono in parlamento il Conte 2) puntano infatti a una “battaglia di arresto”: come quella che 102 anni fa riuscì a contenere sul Piave e sul Grappa la rotta di Caporetto. Tre mesi dopo la storica disfatta in Umbria – un fortino della sinistra in Italia centrale, finora mai espugnato – gli oppositori di Matteo Salvini e Giorgia Meloni devono “vincere o morire” in Emilia-Romagna. Non hanno alternativa a mantenere una testa di ponte nel Nord leghista. Solo se Stefano Bonaccini rimarrà presidente a Bologna sarà possibile – anzi a quel punto forse opportuno – convocare elezioni politiche anticipate: per cercare subito una “riscossa di Vittorio Veneto”. Che un secolo fa, peraltro, si realizzò solo per la dissoluzione delle forze avversarie e grazie all’appoggio massiccio all’Italia da parte di potenti alleati esterni.
Negli anni 20 del ventesimo secolo emerse un’Italia molto diversa da quella che immaginavano – o si auguravano – governanti e governati durante la Grande Guerra. Non prevalsero né la vecchia oligarchia liberale (se non trasmigrando nell’autoritarismo fascista), né le forze popolari condotte da nuovi leader cattolici e socialisti. Anche all’inizio degli anni 20 del nostro secolo è evidente che la politica del Paese è in fase di transizione storica, con approdi ancora oscuri. Due anni fa, del resto, chi avrebbe immaginato un duello per la leadership del Paese fra il segretario della Lega Nord (allora forte in parlamento del 4%) e un giurista totalmente sconosciuto agli italiani, perfino a quel quarto che già allora votava M5s? Ma da Capodanno gli italiani (tutti) dovranno cominciare a misurarsi con questa offerta politica alternativa. Ed emiliani e romagnoli daranno vita a una sorta di prova generale di un voto politico che potrebbe anche tenersi non prima di dodici mesi, ma ragionevolmente non oltre.
Di Salvini, certamente dalle europee dello scorso maggio, è noto molto, se non proprio tutto: le sue costituency elettorali e i suoi probabili partner, la sua piattaforma politico-economica (anche se ancora a grandi linee), le sue posizioni su migranti, Europa, autonomie regionali. Sono conosciute perfino le situazioni di potenziale rischio giudiziario.
Di Conte è invece noto ancora pochissimo. Sul Sussidiario ne abbiamo sottolineato più volte l’identikit del tutto inedito per la democrazia italiana. È impossibile trovare in una qualsiasi democrazia del G7, ma anche in 158 anni di Italia unita, un premier non solo mai votato da nessuno dei suoi concittadini, ma letteralmente spuntato dal nulla. Un premier “vicino” a un partito populista e inizialmente sostenuto da un’altra forza sovranista e divenuto poi senza soluzione di continuità capo di un sorta di governo del Presidente della Repubblica. Non prima del “placet” opaco della piattaforma Rousseau e con l’endorsement di poteri esterni, peraltro conflittuali fra loro come gli Usa di Donald Trump, l’Ue tecnocratica, la Santa Sede. E non senza ombre: a cominciare dai rapporti fra palazzo Chigi e Washington.
A Conte, comunque, ha ora pre-offerto il suo sostegno elettorale il leader del Pd, Nicola Zingaretti: la forza sconfitta da M5s e Lega, dopo una legislatura piena di governo e il controllo di tutte le poltrone chiave nello Stato. Il partito mandato all’opposizione dal Conte 1 e risospinto dal Quirinale verso il Conte 2 ora si candida a essere il portatore principale di voti del Candidato Conte 3. Funzionerà? Anzitutto con quali programmi?
Della manovra 2020 – unico atto di governo vero del Conte 2 con il Paese in stagnazione – ha appena parlato il caso Fioramonti: viene subito ripudiata come mostriciattolo informe dagli stessi ministri che l’hanno firmata. Da nessuna forza economica o sociale è giunto un minimo segno di approvazione espressa. I “decreti sicurezza” firmati da Salvini nel Conte 1 non sono stati toccati dal Conte 2 e giusto a Natale il Viminale ha certificato che gli sbarchi di migranti sono dimezzati dal 2018.
Il caso Alitalia – ereditato dal Conte 1 – è rimasto irrisolto e ad esso si è affiancato il caso Ilva. Il caso Autostrade è rimasto nel pantano mentre il Conte 2 ha registrato il dissesto della Popolare di Bari (il Conte 1, a Capodanno, aveva certificato quello di Carige). A “game” già quasi “over”, è stato il ministro dell’Economia, lo storico marxista Roberto Gualtieri, a chiedere a gran voce “più Stato” nell’Azienda-Italia: cioè più tasse redistributive e un’ondata di rinazionalizzazioni. Ma come la pensi veramente il Candidato Conte Terzo nessuno lo sa ancora.
L’Italia di Conte, nel frattempo, non è più un commensale scomodo ai tavoli Ue, ma solo perché è stato definitivamente relegato nell’irrilevanza, salvo quando i suoi voti sono stati utili a salvare il blocco tecnocratico di Bruxelles. I dossier geopolitici più urgenti – dai rapporti con la Cina alla questione libica – giacciono intanto a palazzo Chigi sostanzialmente chiusi e non gestiti.
Chi voterà il Candidato Conte, e soprattutto il nuovo partito chiamato a dargli legittimazione politica? Il “Partito delle Sardine” nate all’ombra del prodismo bolognese? Il “Partito delle Ong”, dei guerriglieri della Capitana Carola? Il “Partito di Greta”? Il “Partito della senatrice Segre”? Il “Nuovo Partito dei cattolici” che dovrebbe vedere la luce in marzo ad Assisi? Il Partito di Calenda? Il Partito della Carfagna? E quanti voti porterebbero – assieme – all’avvocato pugliese? Ma soprattutto: l’attuale forza elettorale del Pd marcerebbe compatta dietro Conte nuovo leader di un “Comitato di liberazione nazionale”? E quanti voti attuali di M5s (cosa diversa da quanti attuali parlamentari si staccheranno dai gruppi M5s a favore di un “gruppo Conte”) abbandoneranno il meridionalismo assistenzialista di Luigi Di Maio o l’antagonismo di palazzo di Roberto Fico?
P.S.: Il senatore a vita Mario Monti ha già votato la fiducia al Conte 2 (assieme a Liliana Segre) e ventilato il suo interesse per le Sardine. Non è difficile intuire la sua speranza: veder riuscire il Partito di Conte dove invece fallì Scelta Civica nel 2013, pur raccogliendo un rispettabile 10%. Ma i tempi, da allora, sono cambiati se durante il ponte di Natale Monti ha dovuto inviare al “suo” Corriere della Sera una lettera di protesta per un commento che aveva parlato di “fallimento” a proposito della sua stagione di governo. Ma soprattutto, Wolfgang Munchau – opinionista principe di cose europee sul Financial Times – appena domenica scorsa ha scritto: “Nel 2012 un governo di tecnocrati guidato da Mario Monti impose all’Italia un’austerità prociclica nel mezzo di una recessione. L’obiettivo era dimostrare che l’Italia sapeva essere obbediente alle regole fiscali dell’Eurozona. Il Paese non si è ancora pienamente ripreso da quello shock”. È evidente quanto faccia piacere a Monti – peraltro lui pure a suo tempo appoggiato dalla Santa Sede – marciare in prima fila fra i supporter del Conte 3. Ma chissà se farà piacere anche a Conte essere sostenuto da un ex commissario Ue sconfessato anche dalla gazzetta dei mercati finanziari.