Immaginatevi per un momento se al posto di Vito Crimi (viene da ridere solo a scriverlo) e dei Cinquestelle, in questo finale di partita tragicomico delle consultazioni di Draghi, ci fossero stati Silvio Berlusconi con la sua Forza Italia. Immaginatevi se per incontrare Draghi il Crimi-Berlusconi si fosse fatto accompagnare dal suo “garante”, poniamo Gerry Scotti; e se poi, prima di decidere se votare o no la fiducia, Crimi-Berlusconi avesse lanciato un televoto su Italia 1, portando a casa il 60% del consenso con 45 mila voti sì. Che avrebbe detto Nicola Zingaretti, che avrebbe scritto Travaglio, e quanto si sarebbe indignato il Senato giornalistico del gruppo Gedi?
Perché gliele facciamo passare tutte ai Cinquegatti e al loro Capocomico? La riapparizione di Grillo non era, purtroppo, opponibile perché la democrazia è una cosa bella e nobile, molto più nobile di tanti ignobili, e quindi se un gruppo di liberi cittadini decide di seguire un signore che suona un piffero rotto non è una favola ma una brutta faccenda che le regole alle quali ci aggrappiamo non permettono di proibire: ma resta una vergogna morale e intellettuale che un arruffapopolo bugiardo e in malafede possa, on-demand, tornare alle sue scorrerie nella politica del Paese senza che nessun gli chieda conto della sua inconsistenza ideologica e delle sue giravolte da mulino a vento.
E la piattaforma Rousseau? Un vilipendio alla Costituzione, che all’articolo 67 esclude in vincolo di mandato e quindi impone agli eletti di non sentirsi vincolati ad altro che alla propria coscienza. Però la Costituzione non proibisce agli eletti di rifugiarsi nel bagno di Montecitorio per telefonare a casa piagnucolando: “Mammina, cosa devo fare? Aiutami tu!” e quindi questa pagliacciata schifosa di una consultazione on-line alla quale ha risposto lo 0,4% degli sprovveduti votanti grillini su una piattaforma privata dall’ignota certificazione è pur sempre servita ad autorizzare il sì.
Insomma. Da una parte l’Italia migliore, quella che oggi sicuramente Draghi – pur senza mitizzare nessuno, manco lui – evoca, se non incarna: un’Italia che innanzitutto lavora, e non tre ore alla domenica sugli spalti di uno stadio; che studia e sa farsi valere per quello; che conosce il mondo e lo attraversa da pari a pari. E che si prende delle responsabilità per migliorare sul serio la vita al prossimo. Dall’altra la cialtroneria più assoluta, le parole in libertà, la presunzione dei ciucci – come da classico modo di dire – l’opportunismo più cinico.
Come Dio volle, dall’accrocchio di questi opportunisti, unicamente accomunati dal Vinavil con cui cosparsero le proprie terga tre anni fa, al primo sedersi sugli scranni di Montecitorio e di Palazzo Madama, nascerà un Governo di salvezza nazionale: per continuare a combattere la pandemia, possibilmente un poco meglio; e scrivere in italiano un Pnrr capace di meritarsi i soldi europei. Mario Draghi lo saprà guidare. E il suo percorso – diciamolo oggi, una volta per tutte – sarà sostanzialmente molto più stabile di quello che noi, noi dei media, pervicacemente perseverando nei nostri errori, racconteremo.
Già: perché quelli del Vinavil, indifferenti al fatto che le chiazze di colla bianca dietro di loro sono state viste da tutti, ostenteranno ancora il diritto-dovere di sindacare le scelte del Governo, e ogni volta fingeranno di impancarsi, severi e perfino seriosi, a discutere se sia più giusto chiamare il ministero dell’Ambiente col nome nuovo di transizione ecologica o energetica, ma in realtà domani nelle aule parlamentari – come tra un mese e poi giorno per giorno – non penseranno al merito di quel che voteranno ma alla diaria in arrivo il 27, mentre noi li prenderemo sul serio e scriveremo di loro, e daremo conto delle loro finzioni come critici cinematografici convinti che 007 vive davvero due volte.
In realtà, fino al voto per il rinnovo del Quirinale, il primo stadio del razzo-Draghi volerà alto. Tra un anno, a Recovery avviato e, se Dio vuole, pandemia domata, la scalmana riprenderà, e il vero traguardo per questo Parlamento di peones sarà il primo giorno del settimo mese dell’ultimo semestre del quinquennio, allorquando decorrerà anche il merito pensionistico della legislatura e il Vinavil si staccherà come per incanto dai pantaloni e dalle poltrone.
La buona notizia è che il ridicolo di questi giorni di recite da oratorio non si sarà ancora cancellato e le prossime urne sicuramente ridimensioneranno i Cinquestelle a Cinquegatti, col resto di due: Di Battista e la sua motocicletta a capeggiare un partiticchio duro e puro.
Ma il resto, tutto attorno? Una destra di voltagabbana monetari, Europa sì-Europa no, intanto che scaldo il motore della ruspa e mi vado ad arare il giardino dietro casa? Un centrodestra-Tutankamen, perennemente in attesa della convocazione notarile per la lettura di un testamento politico che chi-di-dovere non ha mai voluto scrivere? Un manipolo di camicie nere lavate a secco, coerenti con la linea del voto e incoerenti con la coalizione cui pure avevano aderito? Oppure un partitone-ameba che anche stavolta non ha detto né qualcosa di sinistra, né qualcosa di destra né niente?
Questi del Vinavil riflettono l’Italia peggiore, ma a incollarsi su quelle poltrone ce li abbiamo mandati noi. Il Recovery dovrebbe servire a far maturare la nostra democrazia eternamente bambina, ma non funziona così, purtroppo. Due anni passano in un lampo, e ci ritroveremo a votare con una pessima legge, una pessima classe politica e 2.900 miliardi di debito pubblico, una roba come il 165% del Pil. A quel punto, la cessione di sovranità non sarà più una disquisizione tra costituzionalisti. Sarà la firma sotto un contratto: voi ci obbedite, noi vi teniamo in vita. A meno di un miracolo, a meno che nel frattempo l’Italia migliore non prevalga, non maturi ma sul serio, e faccia piazza pulita dei cialtroni.