Nella confusione mediatica e politica, e in assenza di una volontà di indirizzo sulle scelte economiche e istituzionali da parte del Governo o del Parlamento, opera una piena “restaurazione” del controllo sull’economia, sulla finanza e sulle regole. I vari tasselli del puzzle devono essere fatti combaciare per vedere il disegno globale e, pertanto, risulta opportuno sorvolare sui dettagli, pur rilevanti, che però ci porterebbero ad aggiungere rumore all’analisi.



E passiamo ai fatti-segnale, che conviene elencare:

– assoluzione dei funzionari del Tesoro e di Morgan Stanley nel processo d’appello alla condanna da parte della Corte dei Conti per oltre 3 miliardi;

– nomina del nuovo direttore generale di Banca d’Italia;

– abbandono, di fatto, della proposta di nazionalizzazione di Banca d’Italia;



– approvazione da parte del Senato di una mozione annacquata sulla proprietà delle riserve auree;

– depotenziamento della Commissione di inchiesta sulle banche.

A questi va aggiunto il non-fatto di fondo: non si parla più di lasciare l’euro. I paladini dei vantaggi del no-euro sono stati ragionevolmente commissariati dal loro capitano, che fiuta il vento contrario dell’elettorato sul tema.

Esiste poi un denominatore comune: Mario Draghi. Probabilmente dovrà essere chiamato a salvare l’Italia, non appena la situazione economico-finanziaria esploderà, oppure, semplicemente tornando in Goldman Sachs, potrà favorire il sostegno della finanza internazionale a un nuovo Governo tecnico. 



In ogni caso, l’obiettivo è garantire il mostruoso flusso di risorse verso il sistema finanziario costituito dagli interessi sul debito pubblico e il costo dei derivati, circa 70 miliardi annui. Solo l’assoluzione di Cannata, Siniscalco, Grilli e La Via consente ora di non preoccuparsi di una possibile estensione delle responsabilità a chi dirigeva il Tesoro al tempo dei fatti. Rimane, come un dettaglio, la conferma processuale che i dirigenti non conoscessero la portata dei contratti capestro firmati.

La nomina di Panetta, senza il cambiamento annunciato della governance di Banca d’Italia, ne assicura l’indipendenza dal Governo: principio importante in democrazia per la Banca centrale di una nazione, ma il nostro ente non è più istituto d’emissione. L’attuale assetto giuridico ne garantisce il controllo improprio a Intesa Sanpaolo e UniCredit, un riferimento certo per il sistema finanziario.

A questo punto, la proposta di legge di nazionalizzare l’Istituto e ricondurne il patrimonio in ambito – si direbbe oggi – sovrano è stata, di fatto, lasciata cadere affidando solo a una generica mozione di principio del Senato l’affermazione che l’oro delle riserve è degli italiani. Ma tant’è, Draghi ha precisato – invero ha ambiguamente ribadito – che l’oro può essere gestito unicamente in accordo con la Bce.

Ricordiamo, però, che come conferimento – virtuale, perché parte delle riserve si trova all’estero – i trattati europei assegnano al fondo comune solo un mero 7% delle 2.400 tonnellate. Non è più in agenda argomentare, come ha fatto su questo quotidiano Mario Esposito, che la legge di privatizzazione della Banca d’Italia, a suo tempo fortemente contrastata dai 5 Stelle, andrebbe valutata nel suo profilo di incostituzionalità.

E infine, l’anomala levata di scudi a difesa del sistema bancario, in occasione della nomina della Commissione d’inchiesta sulle banche, da parte persino del mite Mattarella, ha definitivamente sancito che se si toccassero davvero i fili si morirebbe. E questo hanno capito, evidentemente, Salvini, Bagnai, Di Maio, i quali forse lasceranno a un isolato Paragone il compito di individuare dei capri espiatori, ma non certo far emergere verità scomode.

L’importante è che l’euro viva, abbia la garanzia implicita delle riserve auree italiane e che la grande finanza internazionale possa sfruttare l’indebitamento italiano ancora per gli anni a venire.