Solo per qualche breve attimo è parso che Roberto Fico potesse veramente far approdare il suo mandato esplorativo a un “Conte-ter” oppure a un incarico diretto per formare un nuovo Governo. Ma nel tentativo è parso non credere in fondo neppure l’interessato: con l’effetto finale di ri-certificare la caduta di peso delle istituzioni parlamentari nella vita politica nazionale. Eppure il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, aveva espresso una motivazione autentica preferendo il presidente della Camera a quella del Senato Elisabetta Casellati: con una logica ineccepibile sia sul piano formale che sostanziale.
La verifica della possibilità di dar vita a un “Conte-ter” – o comunque di confermare la maggioranza uscente – non poteva essere affidata a un’esponente di una forza di opposizione come la Casellati (Fi). Appariva d’altro canto corretto che a condurre l’ultima “esplorazione” fosse un esponente di M5S, forza di maggioranza relativa in Parlamento e architrave della coalizione giallorossa. E se c’era un esponente senior – “presentabile” – del grillismo questo era il presidente della Camera: al quale però è toccato infine impersonificare un’emarginazione istituzionale mista a un distacco anche personale. Fico era già da mesi in predicato di una candidatura a sindaco di Napoli e la prospettiva di un addio a Montecitorio sembra farsi ora più concreta, nell’orizzonte di un ampio rimescolamento di volti e incarichi della politica nazionale attorno al cambio di governo.
Il punto, ora, non sembra però tanto chi vorrà o potrà sostituire Fico alla Camera: oppure anche Casellati a Palazzo Madama, poltrona “di garanzia” ultimamente riservata per prassi alle forze d’opposizione (chi potrà dire di esserlo con Draghi a palazzo Chigi?). Ragionare della terza e fors’anche della seconda carica della Stato – in attesa che fra meno di un anno il Parlamento si pronunci sulla prima – sollecita di per sé un bilancio “di costituzione materiale” di una fase senza precedenti della democrazia italiana. Significa in concreto provare a chiudere l’anno dei “pieni poteri” del Premier non eletto Giuseppe Conte: ma guardando in avanti; utilizzando il passaggio per una riflessione sulle democrazia parlamentare 75 anni dopo la nascita della Repubblica e dopo il ciclone-Covid.
Le premesse che paiono rafforzarsi mano a mano che Draghi procede nella costruzione dell'”esecutivo del presidente” sono promettenti. Il Premier incaricato erediterà, salvo colpi di scena, i poteri d’emergenza prorogati da Conte fino al 30 aprile. Ma appare fin d’ora verosimile che l’uso che ne potrà fare Draghi sarà lontanissimo dai confini dell’abuso che Conte è sembrato più volte avvicinare. E non sorprende il rumor riguardo la possibile conferma al ministero della Salute di Roberto Speranza: i tanto dibattuti Dpcm – se e in che misura saranno ancora necessari – riguarderanno l’emergenza sanitaria.
Il vero cuore del mandato a Draghi – la riscrittura integrale del Recovery Plan italiano entro il termine Ue del 30 aprile – difficilmente sarà opera di un “uomo solo”: anche se Draghi possiede verosimilmente tutti i numeri per poter firmare in totale autonomia un “Piano nazionale di resilienza e rilancio” del tutto credibile a Bruxelles. È invece in un ordine di cose costituzionalmente ristabilito che l’exit strategy dall’emergenza economica venga realmente condiviso all’interno di un governo di salute pubblica e unità nazionale; e quindi presentati alle Camere. Se Conte avesse seguito questa strada – che è quella indicata dalla Carta – può darsi che oggi sarebbe ancora presidente del Consiglio. Draghi è stato chiamato da Sergio Mattarella anche per questo. E non stupisce che autorevoli voci europee sottolineino – in queste ore – che negli otto anni al vertice Bce, il banchiere italiano si è rivelato non solo un esperto tecnocrate ma anche un leader politico: in un’Europa dove anche la capacità politica è diventata risorsa scarsa.
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