I napoletani – il 47% andato al voto – hanno scelto come loro sindaco Gaetano Manfredi a larghissima maggioranza (63,5%). Ora che il risultato è noto la gran parte dei commentatori afferma che l’esito era scontato. Non è proprio così. È vero che avesse tutte le carte in regola per vincere, ma da qui a stravincere al primo turno con due competitori (Antonio Bassolino e Alessandra Clemente) nello stesso schieramento politico di centrosinistra di strada ne corre.
A ben guardare (queste cose ex post si vedono meglio) l’ex ministro del Governo Conte già rettore della Federico II ha potuto contare su due leve che alla fine si sono dimostrate formidabili per spalancare di schianto il portone di palazzo San Giacomo: la sua personale capacità (con tutte le buone qualità che vorremo metterci dentro) e la sua distanza dal modello De Magistris che per dieci lunghi anni ha fatto da sfondo a una straziata e straziante amministrazione cittadina.
Una circostanza, quest’ultima, della quale non si è potuto avvantaggiare il candidato di centrodestra Catello Maresca, che con il sindaco uscente condivide la provenienza dalla magistratura inquirente, il terribile ufficio dei pubblici ministeri, pur esprimendo orientamenti e comportamenti assai diversi da quelli rappresentati dalla bandana arancione. Certo, poi, i partiti a suo sostegno hanno fatto la loro parte per indebolirne profilo e assetto competitivo.
Dunque, l’evidente alterità da De Magistris e le personali qualità di Manfredi sono alla base di un’affermazione che ha il senso doppio di una legittimazione e di una liberazione. Tanto chiassoso superficiale e velleitario il primo quanto silenzioso approfondito e concreto il secondo. Due profili più diversi non potrebbero esserci e in effetti non ci sono. Come due lustri fa i cittadini di Partenope pensarono di affidarsi alla lucida follia dell’uno oggi si rifugiano nella ragione dell’altro.
Una ragione che ha saputo farsi valere anche nel momento cruciale della campagna elettorale quando si andavano profilando le caratteristiche dei candidati in base alle quali gli elettori avrebbero dovuto assegnare le loro preferenze. Quando, cioè, a qualcuno dei guru che si aggirano per le campagne elettorali era venuto in mente di stravolgere le caratteristiche genuine di Manfredi per costruire un’immagine che certamente non gli appartiene.
Al posto del mite professore doveva ammiccare dai cartelloni stradali e dalle immagini sui giornali un tracotante giovanotto che, chissà perché, avrebbe dovuto suscitare più fiducia e simpatia dell’originale. Va bene togliersi gli occhiali e indossare la giacca blu e forse sorridere ogni tanto, ma ispirarsi alla moda di un giovanilismo fuori tempo e fuori luogo poteva cancellare esattamente quello che di buono Manfredi può offrire: una solida e rassicurante gestione della cosa pubblica.
Dal che si può dedurre, e la cosa è confortante, che il neosindaco non ha bisogno di travestirsi per imporsi e convincere. Che è proprio quella sua aria un po’ così a dargli credibilità e forza. Che anche in futuro saprà guardarsi dal seguire i cattivi consigli facendo affidamento sulla sua sensibilità e sul sostegno di bravi collaboratori (che poi si rivelano anche i più fidati). Ecco un’autentica rivoluzione: restare se stessi per cambiare tutto intorno quello che proprio non va.
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