In Cina è un virus che funge da catalizzatore al massimo dispiegamento hi-tech di sorveglianza di massa. In un Paese dove il controllo sociale per mezzo di sistemi di riconoscimento facciale è così spinto da mettere alla gogna digitale chi viene sorpreso indossando il pigiama per strada, era prevedibile che il contenimento del contagio da coronavirus spingesse il governo di Pechino a ricorrere a ogni sorta di applicazione di Intelligenza Artificiale. Con circa 2.500 morti e oltre 77 mila infettati, i cittadini, più preoccupati per la loro salute che consapevoli della perdita di privacy, hanno abbozzato se decisamente non accolto favorevolmente l’intrusione sempre più spinta nella loro vita privata.



Dall’apertura dei tornelli della metro all’attivazione di una Sim, utilizzare il proprio volto è una consuetudine per i cinesi abituati a essere ripresi dalle 350 milioni di videocamere con software di riconoscimento facciale attive in tutti luoghi pubblici nel paese. Da febbraio, a Pechino, è in funzione un sistema capace di riconoscere una temperatura corporea sospetta a partire da dati biometrici allertando le autorità sanitarie che si presenteranno al domicilio del presunto infetto per una verifica. Un’altra società, Sensetime, ha sviluppato un algoritmo per individuare nella folla chi non indossa una mascherina. Nelle aree rurali il controllo è invece affidato a droni che sorvolando campagne e quando identificano un trasgressore gli volteggiano sopra la testa intimandogli con messaggio vocale di procurarsi una protezione.



L’efficienza e la minuzia nel tracciare gli spostamenti dei cittadini è perfettamente riassunta nella vicenda del residente di Hangzhou il quale, al ritorno da un viaggio, viene contattato dalla polizia che gli impone 14 giorni di quarantena. La targa della sua auto era stata individuata nei pressi di Wenzhou, cittadina che aveva registrato alcuni casi nonostante fosse ben lontano dall’epicentro di Wuhan. Dopo una settimana, stufo della segregazione, l’uomo esce di casa. Dopo poco viene fermato della polizia e quasi contestualmente contattato anche dal suo capo. Era stato riconosciuto da una videocamera e cautelativamente le autorità avevano allertato anche il suo datore di lavoro.



La pervasività dei sistemi di riconoscimento facciale per salire sui treni permette di mappare le persone sedute vicino a una persona risultata positiva al coronavirus. Non solo coercizione, ma anche azioni volontarie. Close Contact è un’app per investigare sulle probabilità di essere entrati in contatto con una persona contagiata, incrociando l’identità digitale dell’utilizzatore con i database di linee aeree e ferroviarie, uffici, scuole, ospedali, ecc. riesce a ricostruire la rete di interazioni e, nell’eventualità di esposizione, ordinare la quarantena.

Questo clima poliziesco è possibile solo in un contesto dove le finalità d’uso della tecnologia sono giudicate indipendentemente dal loro impatto sui diritti personali. E non si tratta solo di derive di regimi illiberali; in nome di un’eccezionale gravità, anche in democrazie costituzionali è stata invocata la necessità di comprimere le libertà individuali. Dopo l’attacco alle Torri Gemelle, per esempio, con l’emanazione Patriot Act. Una mossa apparentemente ragionevole che rischia di offuscare il confine tra sicurezza e sorveglianza.

Tentazione accaduta anche in Italia recentemente quando nelle fasi concitate dell’emergenza sanitaria, alcuni virologi, sui social, hanno proposto di tracciare i cellulari per scoprire le interazioni tra suscettibili di contagio e contagiati. A livello di macro-analisi potrebbe anche essere un suggerimento che non deroga al regolamento europeo di GDPR, ma eticamente è da considerarsi accettabile, auspicabile? Scriveva Benjamin Franklin più di trecento anni prima dell’avvento delle sofisticate tecnologie di sorveglianza: “Colui che rinuncia alla libertà per raggiungere la sicurezza non merita né la libertà, né la sicurezza”.

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