Un grande economista e filosofo (o filosofo ed economista, comunque premio Nobel) come Amartya Sen ci ricorda che gli esseri umani possono essere classificati in tanti modi diversi e non necessariamente – questo l’assunto di partenza – per fede religiosa: una distinzione fonte di tante incomprensioni e altrettanta discordia nel mondo.
Dunque, gli uomini e le donne del pianeta possono riconoscersi e ed eventualmente associarsi per la professione che esercitano, per gli hobby e gli interessi che coltivano, per convinzioni politiche, stato sociale, tifo calcistico e tanto altro. Insomma, l’umanità è varia e grazie al cielo non si può ridurre a una sola dimensione.
Le preoccupazioni e le polemiche di questi giorni sulla capacità della burocrazia nostrana – lenta, autoreferenziale, conservativa – di dare seguito alle indicazioni del cosiddetto Decreto liquidità e di tutte le altre misure disposte dal Governo per sostenere il mondo delle imprese suggeriscono una particolare divisione.
Quella tra garantiti e non, tra chi può contare su un reddito sicuro pur se scalda solo la sedia e chi il reddito se lo devo conquistare tutti i giorni con il sudore della fronte; tra chi vive di mercato, dei suoi alti e bassi e dei suoi possibili rovesci, e chi ha conquistato un posto pubblico il più delle volte gestito in modo proprietario.
La crisi globale scatenata dalla pandemia da coronavirus ha più che mai accentuato il carattere di questa dicotomia: da una parte i destinatari dei provvedimenti governativi (tesi a fornire liquidità ad aziende che a causa del morbo rischiano di fallire senza alcuna responsabilità), dall’altra chi questi provvedimenti dovrà amministrare.
Le imprese private, i loro lavoratori e le loro lavoratrici – chi produce insomma di gran parte della ricchezza nazionale che si traduce in tasse per consentire la spesa pubblica – non se la passano affatto bene. Per loro il tempo corre veloce e ogni giorno vedono assottigliarsi le possibilità di superare l’emergenza con pochi danni.
Gli impiegati dello Stato, delle Regioni e degli enti locali, i funzionari e i dirigenti di ogni possibile articolazione pubblica, e finanche i decisori delle banche, non hanno fretta. Non ne hanno mai avuta confortati dal motto che chi non fa non sbaglia. Per loro il tempo è una variabile indipendente: più lento va, meglio è.
Naturalmente questa appena espressa è una generalizzazione e come tale va considerata. Esistono per fortuna eccezioni che, pur confermando la regola, lasciano aperta la porta alla speranza. La reazione del personale medico e paramedico, per esempio, è stata esemplare. E di questo va dato atto con soddisfazione.
Ma la regola è un’altra. E da qui nascono le preoccupazioni che rendono scettico il mondo dei produttori cui sono destinate le garanzie statali che devono assistere i prestiti che gli istituti di credito sono chiamati a erogare sulla base di criteri che differiscono in base alla dimensione dell’azienda che li chiede.
Altrove, in altri Paesi pur colpiti dalla pandemia, si è deciso di saltare ogni passaggio intermedio e far arrivare i soldi necessari a superare questa terribile fase di transizione direttamente sui conti correnti delle imprese e nelle tasche dei lavoratori scansando le lungaggini e le incomprensioni che da noi si temono.
La casta dei burocratici, certo, deve rispondere a leggi che in piccola parte subisce e in molta parte contribuisce a determinare in difesa dei propri interessi. Ed è in genere sorda alle richieste di comportamenti solleciti che giungono da chi sta dall’altra parte della barricata e sono spesso impotenti di fronte alla loro inerzia.
Un modo per colmare questa distanza ci sarebbe. Improponibile sul piano pratico ma perfettamente rispondente al principio del contrappasso tanto caro al nostro Dante: invertire i ruoli ogni due o tre anni. E vedere come se la cavano sul mercato i percettori di stipendi sganciati da ogni merito.