Continua a far discutere lo scoop del New York Times sul coinvolgimento diretto della Cia nella resistenza ucraina contro l’aggressione russa. Non è in gioco tanto il merito di quella che è apparsa a molti una “non-notizia”: nessun osservatore qualificato – ma ormai neppure una più vasta opinione pubblica occidentale – ha mai creduto che operazioni come l’affondamento dell’incrociatore “Moskva” possano essere state opera delle forze ucraine. Gli interrogativi riguardano semmai la fonte dell’operazione mediatica: la testata liberal Usa che più di ogni altra ha appoggiato finora la crociata dell’amministrazione Biden contro il blitz militare del “macellaio criminale” Vladimir Putin.
È stata evocata la famosa pubblicazione dei “Pentagon papers”, nel 1971, da parte dello stesso NYT. Ma allora alla Casa Bianca c’era il Repubblicano Richard Nixon e l’intellighenzia demo-liberal americana marciava convinta nei cortei pacifisti decisi a ritirare gli Usa dalla guerra nel Vietnam. Allora – come probabilmente anche ora – la Cia era il simbolo del deep state “antidemocratico”. Era dipinta (non senza fondamento) come il cuore dell’America “guerrafondaia”, collusa con il “complesso militar-industriale” che gestì – nei soli anni del Vietnam – 168 miliardi di dollari, pari a mille miliardi odierni.
Perché il New York Times ha rispolverato oggi quegli umori, quei toni? Perché riallunga le ombre della prima Guerra Fredda sulla campagna ucraina, narrata invece per settimane come una nuova “campagna di liberazione” dell’Europa? Solo per tutelare – magari una tantum – il prestigio della propria indipendenza?
Una lettura diversa – certamente opinabile – può richiamare un altro singolare passaggio mediatico degli ultimi giorni: le parole preoccupate del dittatore bielorusso Alexander Lukashenko sul “trascinamento” della campagna russo-ucraina. Dopo due mesi la guerra nell’Est Europa sembra perdere appeal ovunque. E basta guardare la homepage del NYT per comprenderlo.
Premesso che la “remota” crisi ucraina non è mai stata in cima alle attenzioni dell’opinione pubblica Usa (semmai in Europa si è raccontato volentieri che fosse in cima alle preoccupazioni del Presidente Joe Biden), negli ultimi giorni le cronache hanno acceso i fari oltre Atlantico sugli effetti della guerra. La Fed ha alzato di 50 punti base il suo tasso di riferimento (per la prima volta da 22 anni) per contrastare un’inflazione giunta ai livelli massimi da 40 anni (8,5% tendenziale annuo), Nell’ultima settimana Wall Street ha accusato un brusco calo, che si è aggiunto a quelli che hanno fatto dell’inizio 2022 il peggiore dal 1939 per lo S&P500 (e per il Nasdaq composite aprile è stato il peggior mese dal 2008). Il Pil Usa si è contratto nel primo trimestre (-1,4%), anche se la disoccupazione resta ai minimi. L’inflazione da energia – impatto diretto della guerra russo-ucraina, per quanto attutito rispetto all’Europa – sta già causando un picco di bollette non pagate nelle grandi metropoli Usa. Per non parlare del rialzo dei prezzi al consumo legato all’onda lunga della pandemia sul commercio internazionale: una turbolenza non ancora esaurita e ora anzi rilanciata dalla “guerra delle sanzioni”.
È quindi uno scenario politico-economico molto crudo quello che ha accompagnato l’annuncio di Washington di uno stanziamento di 33 miliardi a sostegno dell’Ucraina, anzi: della “guerra per la vittoria” contro la Russia, per quanto lunga e aspra. Altri soldi al Pentagono? E le riforme promesse nella campagna elettorale “di liberazione” dell’America da Donald Trump? L’aumento del salario minimo, nuovi piani infrastrutturali e nel welfare pubblico: i punti “non negoziabili” della riemersa ala “radicale” dei partito democratico, del vecchio Bernie Sanders e dalla giovane Alexandria Ocasio-Cortez?
Ma a sei mesi dal voto midterm – in vista del quale i dem corrono rischi seri di perdere la maggioranza nelle due Camere – c’è parecchio altro a rendere già logora la guerra ucraina come cavallo elettorale per Biden. La principale narrazione di politica interna sottostante la crociata contro Putin (i legami fra la democratura russa e il trumpismo “golpista” del 6 gennaio 2021) non sta affatto incidendo sui sondaggi: anche su quelli – per nulla periferici – riguardanti gli oltre 30 seggi di governatore in palio durante l’anno. All’elettorato Usa – oltre alle questioni economiche – sembra interessare parecchio la “battaglia sull’aborto”.
Un leak giornalistico ha confermato la prospettiva che la Corte Suprema – oggi composta in maggioranza di giudici nominati da presidenti Repubblicani, tre su nove da Trump – possa a approvare dopo mezzo secolo restrizioni alla libertà di aborto richieste da alcuni Stati (anzitutto il Texas). Sarebbe una macchia pesante al giro di boa del quadriennio di Biden, che deve ancora decidere se ricandidarsi nel 2024 (ancora contro Trump?). Ma non meno impegnative si profilano le opzioni della Casa Bianca per rispondere alla prevedibile mossa-choc della Corte Suprema. Biden è già di per sé un controverso “cattolico non contrario all’aborto” (il secondo Presidente cattolico dopo John Kennedy): contrastato per questo dalla maggioranza dei vescovi Usa, a loro volta rintuzzati dalla Santa Sede in funzione anti-Trump. Ma proprio la guerra in Ucraina – che Biden tuttora mostra di voler continuare – ha aperto una voragine rispetto a papa Francesco. E negli Usa è cresciuto nel frattempo il peso delle chiese evangeliche, intransigenti sull’interruzione della gravidanza: che invece è da sempre un bastione del progressismo “politically correct” nelle “culture war” d’Oltre Oceano.
Un altro “spettro” è venuto nelle ultime settimane a disturba i sonni dell’establishment “dem”: quello di Elon Musk. Il patron di Tesla ha comprato per 44 miliardi Twitter: una delle grandi piattaforme social, cruciali per il confronto politico ed esse stesse terreno di scontro. Per quanto Musk sia un campione del capitalismo tecnologico a stelle e strisce, il suo blitz su Twitter ha registrato un coro di commenti negativi. Troppo vincente e indipendente fino all’eccentricità l’imprenditore-inventore per eccellenza negli Usa del ventunesimo secolo. Troppo “businessman” puro, l’astronauta Musk, con pochissime remore verso il galateo “politically correct” (a differenza di un Jeff Bezos, editore “democratico” del Washington Post). Troppo collidente con un’altra crociata che Biden ha annunciato e abbozzato, ma per ora non realizzato: quella antitrust contro i giganti digitali californiani. Musk “il cinguettatore” è giunto in piena guerra a portare due messaggi brutali: le “fake news” non sono un “male assoluto” attribuibile solo al “Grande Satana” russo; e mentre Biden chiede all’intero Occidente sacrifici per difendere “la Libertà”, un all-american-tycoon ne approfitta per muoversi come un oligarca occidentale (finanziato dal mercato: dalle grandi banche di Wall Street, ma anche da capitali sauditi).
Non c’è da stupirsi se lo stesso NYT abbia dato poca visibilità alla prima risposta di Biden: la costituzione di un nuovo Disinformation Governance Board all’interno della Homeland Security, il ministero federale dell’Interno. L’ufficio – una nuova ma non meglio identificata “polizia delle notizie” – è stato affidato a una figura discussa: la 33enne Nina Janckovicz, una studiosa di problematiche geopolitiche in Russia, Bielorussa e Ucraina, nota fra l’altro per aver accreditato il controverso rapporto Steele sui legami fra Trump e la Russia.
La guerra occidentale in Ucraina – di per sé un canovaccio complicato per i dem liberal & radical – si sta dimostrando sempre più usurato e ingestibile. Può darsi che il NYT abbia voluto avvertire Biden di questo: che non è continuando a vestirsi come l’omologo di Kiev, Volodymyr Zelensky; non è facendogli da fornitore e servente di missili che può pensare di uscire bene dal midterm. Dalla prova generale della nuova “guerra civile” nel 2024.
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