L’inflazione ad aprile in Italia si è attestata all’8,3% rispetto al 7,6% di marzo, interrompendo una fase di rallentamento che durava da dicembre. I prezzi degli alimentari continuano a salire più che proporzionalmente con un incremento del 12,6% superato solo da quello per “Abitazione, acqua, elettricità e combustibili” in rialzo del 16,9%. È la conferma, se mai ce ne fosse ancora bisogno, che l’inflazione percepita è più alta di quella del dato sintetico ufficiale.
Si accumulano evidenze che i prezzi stanno scendendo meno velocemente di quanto si credesse, nonostante il rallentamento della crescita e il calo netto sia dei prezzi del gas che di quelli del petrolio. Per tornare su livelli vicini al 2% in tempi ragionevolmente brevi servirebbe una recessione violenta che ovviamente nessuno si augura. I prezzi, invece, potrebbero rimanere elevati anche in presenza di un rallentamento “normale”. Inflazione elevata significa posticipare il momento del “pivot” delle banche centrali in cui interrompono il rialzo dei tassi e iniziano con i tagli e sulla cui vicinanza avevano scommesso molti investitori.
Per le banche centrali la strada è in salita perché si devono destreggiare tra l’obiettivo di contenere l’incremento dei prezzi e quello di preservare la stabilita finanziaria. I rischi di un errore di politica monetaria salgono, perché se le banche centrali cominciano a tagliare i tassi troppo presto l’inflazione è destinata a ripartire, se invece sono troppo aggressive nei rialzi si moltiplicano le tensioni sui mercati finanziari generando effetti domino. Il fallimento delle banche regionali americane, e le difficoltà, per esempio, del comparto immobiliare sono le conseguenze iniziali e più evidenti degli stress causati dalla corsa delle banche centrali ad alzare i tassi per frenare i prezzi. La previsione più facile in questo scenario è un aumento della volatilità, perché l’errore di politica monetaria è dietro l’angolo.
Si comprende meglio quale sia il senso delle affermazioni del capo economista della Banca di Inghilterra di settimana scorsa secondo cui “occorre accettare che siamo tutti più poveri”. Le banche centrali hanno disperatamente bisogno di recuperare margini di flessibilità e sembrano cercarli sul mercato del lavoro che deve limitare gli incrementi salariali. Non è chiaro perché famiglie e lavoratori dovrebbero accettare di diventare più poveri quando anni di politiche monetarie espansive hanno aiutato i “ricchi” molto più che proporzionalmente. La pressione quindi è tutta sui Governi a cui verrà chiesto di intervenire, con politiche fiscali, per impedire o limitare l’erosione del potere d’acquisto e per contenere gli stress finanziari generati dai tassi alti. Più i tassi rimangono alti, più lentamente scende l’inflazione, più lo stress si sposta sui Governi e sulle obbligazioni statali. Il downgrade del debito pubblico francese da parte di Fitch di settimana scorsa e l’allargamento dello spread Btp-Bund di ieri confermano questo quadro.
I debiti pubblici negli ultimi quindici anni sono stati l’immancabile rifugio degli investitori che cercavano riparo dalle crisi. Nel mondo che si è aperto dopo il Covid e dopo la guerra in Ucraina questo assunto potrebbe non essere più vero.
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