Il “modello Milano” ormai è un vero e proprio “topos” della stampa italiana e appare con frequenza ormai fastidiosa anche per chi sente in qualche modo di farne parte; dopo un po’, come tutto, “stroppia”. Tra i tanti dati che cristallizzano questo successo segnaliamo che è l’unica città italiana dove il settore immobiliare ha un segno positivo a testimonianza di un fervore economico e di afflussi di investimenti esteri che è innegabile.



Ritroviamo in verità questo fenomeno “cittadino” in moltissime nazioni sviluppate, al punto che ormai si sente parlare spessissimo di “world cities” e cioè di quelle città che si innalzano, economicamente e culturalmente, dalla loro nazione e volano a un livello superiore appartenendo a un mondo globale, in questo separandosi dal territorio contiguo. È una contrapposizione o dialettica che si osserva tra Parigi e la Francia, esattamente come tra Londra e il resto dell’Inghilterra, tra Chicago e il Mid-West così come tra New York e l’East Coast. In Italia abbiamo Milano. Sarebbe interessante mettere in relazione questo fenomeno con la “globalizzazione”. Sospettiamo una relazione significativa non tanto per la globalizzazione in quanto tale, ma per com’è avvenuta la globalizzazione; un fenomeno che, così ci spiegano sostanzialmente tutti, ha spostato ricchezza dai ceti medi e bassi a quelli “alti” moltiplicando le disuguaglianze. Così oggi i ricchi delle città accusano i poveri fuori di ignoranza e questi ultimi si arrabbiano ancora di più.



In ogni caso Milano oggi si candida o appartiene a questo club tutto sommato ristretto con titoli molto migliori di quelli di dieci anni quando la “separazione” con il resto del Paese, che pure esisteva, era sicuramente meno evidente. Ed è interessante mettere in fila una serie di cose che sono successe a Milano nell’ultimo decennio. La svolta è sicuramente coincisa con l’Expo, ma a nessuno è sfuggito che Milano rispetto a dieci anni fa ha una linea metropolitana in più e si appresta ad aprirne un’altra; due autostrade nuove (la tangenziale esterna e la Brebemi), una linea dedicata per l’aeroporto di Malpensa, ecc. Sono investimenti in infrastrutture che superano sicuramente i 10 miliardi di euro in gran parte finanziati con contributi pubblici (come nel caso delle linee metropolitane per esempio) e, udite udite, con tagli e incentivi fiscali a volte anche molto ingenti (per esempio, nel caso delle autostrade). È chiaro che è in atto un circolo virtuoso in cui gioca un ruolo importante anche un’amministrazione pubblica efficiente e una cittadinanza che ha resistito alla sindrome del non fare incluso il pericolosissimo vizio del “nimby” per cui i buchi in strada per i lavori pubblici vanno bene fino a che non sono davanti alla mia.



I miliardi di euro in infrastrutture hanno un peso, non aggiungiamo l’alta velocità che pure da Milano parte per andare a Torino, Venezia, Bologna e presto Genova, misurabile in punti di Pil “di Milano”; sono stati finanziati con finanza pubblica sia sottoforma di finanziamenti a fondo perduto per più della metà, sia con incentivi fiscali. Così oggi i milanesi vanno a vedere l’Inter o il Milan senza aspettare il pullman, vanno e tornano da Malpensa senza stare in coda in autostrada e domani andranno a Linate partendo dalla centralissima San Babila senza il traffico caotico di corso XXII marzo; tutto tempo più utilmente usato per lavorare, pensare o riposare. Sicuramente una manna per il Pil e per la competitività di Milano o per i suoi turisti.

Parlare del modello di Milano e presentarlo come esempio al resto d’Italia trascurando questo ingrediente della ricetta è un po’ “egoista”; come quei cuochi che non vi dicono mai l’ingrediente “segreto” di una ricetta sicuramente complicata e ricca di componenti, ma che è impossibile replicare senza tutti i dettagli. Milano ha tantissimi meriti, ma è anche, e di gran lunga, la città in cui più si è investito con finanza pubblica in infrastrutture; non è una condizione sufficiente perché tante amministrazioni non si sono dimostrate capaci di gestire progetti complessi, ma è sicuramente una condizione necessaria. Per Milano e per chiunque volesse replicarne il modello. Altrimenti parlare del miracolo Milano diventa un po’ ipocrita.