Il giallo della lettera di preavviso del disimpegno Usa dall’Iraq ha confermato quanto l’operazione Soleimani sia stata allo stesso tempo effetto e accelerazione ultima di un vasto chiarimento geopolitico in progress da tempo. Una spinta allo scarico di molte tensioni accumulate anche al di fuori dello scacchiere mediorientale. Un passo – se non proprio cercato – apparentemente colto al volo dal presidente americano Donald Trump. Al quale nessuno, anzitutto, sta riconoscendo la motivazione contingente: la risposta all’attacco all’ambasciata Usa di Baghdad, cui certamente non era estraneo il leader paramilitare iraniano eliminato da un drone.



Il “generale” Soleimani – ucciso a Baghdad, non in Iran – è sempre stato l’indiscusso erede in linea retta degli “studenti islamici” che nel 1979 sequestrarono 52 funzionari dell’ambasciata americana per 444 giorni. L’allora inquilino (democratico) della Casa Bianca, Jimmy Carter, fu paralizzato per l’intero ultimo anno di mandato e ci rimise la rielezione: anche in seguito al fallimento di un tentativo militare di liberazione. Gli ostaggi furono irridentemente rilasciati dall’ayatollah Khomeini il giorno dell’insediamento di Ronald Reagan. Anche l’attacco del 2012 all’ambasciata statunitense a Tripoli – con la morte dell’ambasciatore – avvenne al culmine della seconda campagna presidenziale del premio Nobel per la pace Barack Obama e pesò poi sulla campagna perduta da Hillary Clinton nel 2016. Non da ultimo: alla distruzione dell’ambasciata Usa a Beirut nel 1983 (63 morti) viene fatto risalire l’esordio terroristico degli hezbollah libanesi, da allora spina nel fianco iraniana ai confini israeliani e nella striscia di Gaza.



Nel gioco degli scoop pilotati, delle mezze smentite e delle “autentiche patacche”, non è ancora chiaro chi abbia davvero calato sul tavolo la “lettera del ritiro” e con quali obiettivi. Quando ad esempio il New York Times scrive che “Trump potrebbe dichiarare la vittoria e andarsene” – invitandolo a rileggere quanto accadde al suo predecessore Lyndon Johnson in Vietnam – non è facile capire a quali scenari guardi. Da un lato sembra strizzare l’occhio alle prime marce “anti-imperialiste” che hanno ripreso a sfilare per le vie di Washington, in stile anni ’60. Ma il presidente repubblicano in carica nel 2020 ha annunciato fin dal primo giorno che la sua America First non vuole più essere la superpotenza “imperiale” di un mondo divenuto “unipolare” dopo la Guerra Fredda. O, almeno, non intende più sobbarcarsi il grosso dei costi della Nato (che però sono anche il gigantesco budget del Pentagono e il corrispondente fatturato del cosiddetto “complesso militar-industriale”).



Qualunque accusa gli muovano i suoi avversari e critici, Trump ha sempre affermato che il Pil Usa deve essere distribuito meglio fra gli americani “dimenticati” dal proliferare delle diseguaglianze, non speso per proteggere interessi altrui mantenendo un mega-apparato militare a spese degli americani. Trump  è amico e alleato dell’Arabia Saudita anti-iraniana, ma non è in partenza Bush Sr all’epoca della prima guerra del Golfo; né Bush Jr che deve vendicare l’11 settembre con l’invasione di Afghanistan e Iraq.

Più che spingerlo al replicare per l’Iraq il disimpegno già deciso dall’Afghanistan, il quotidiano degli israeliti liberal americani sembra quindi sfidare il presidente: ad abbandonare il campo mediorientale, impaurito dalle conseguenze della suo ennesimo “colpo di testa”. Ma è qui che la partita si sposta su un altro tavolo, forse più di poker che di scacchi: sempre sul filo spregiudicato e spesso paradossale dei bluff e dei vedo.

Non c’è stato giorno che il NYT non abbia attaccato l’attuale “regime Netanyahu” in Israele, di cui Trump è il principale supporter, grazie al sostegno di una parte sempre più consistente della comunità ebraica statunitense. Per gli israeliti liberal – non solo negli Usa – il 2020 si profila come un anno decisivo: se il terzo tentativo elettorale in un anno di abbattere Netanyahu dovesse fallire al voto di marzo e se dovesse seguire una rielezione di Trump in novembre le conseguenze sarebbero notevoli, negli Usa, in Medio Oriente e altrove, dentro e fuori la comunità ebraica internazionale. Chiunque sia – sui media o dal deep state americano – a punzecchiare Trump sul ritiro dal Medio Oriente va consapevolmente a toccare questo nervo sensibilissimo: senza remore apparenti a mettere inevitabilmente in gioco (pericoloso) il dogma della “sicurezza dello stato di Israele” sotto ininterrotto patronato Usa. Ma è quello che, per certi versi,  hanno fatto i democrat “pacifisti” quando hanno condannato l’uccisione di Soleimani. Lo stesso Netanyahu – premier in carica fino a che la nuova Knesset non darà la fiducia a un nuovo esecutivo – è in teoria capace di qualsiasi decisione: soprattutto se messo sotto pressione dagli sviluppi nella regione. Però all’ultima resa dei conti senza quartiere con “Donald & Bibi” – finora a colpi di impeachement – ogni carta è evidentemente valida, qualsiasi “guerra di nervi” lecita.

Naturalmente la mappa del Grande Gioco mediorientale è più vasta e altri giocatori sono al tavolo (o almeno altri vorrebbero giocare o quanto meno non subire le conseguenze della “smazzate” altrui). I paesi-membri di uno sfilacciato “club Ue” sono fra questi. È verso l’Europa di Macron & Merkel che si riverbera l’onda d’urto della “guerra di Libia” condotta nel 2011 da Sarkozy & Merkel con la benedizione degli Usa di Obama. E solo la Ue miope e ottusa di Bruxelles ha potuto pensare per anni che la polveriera libica si riducesse a una conflittualità afro-tribale o ai fastidi del traffico di migranti ben canalizzato verso l’Italia. Adesso in Libia si riaffaccia – assieme alla Turchia islamizzata – la Russia di Putin: contro la quale l’Ue ha ri-eretto da anni un muro di sanzioni geopolitiche. Ora – capita di leggere – per arginare una nuova “guerra di Libia” sfuggita a ogni controllo da parte dell’Europa – qualcuno starebbe pensando di attivare un “blocco navale”. Chissà se il comando verrà affidato alla “capitana” Carola Rackete, esperta tedesca di operazioni militari nel Canale di Sicilia.