Per la verità Giuseppe Conte si è preso, qualche volta, del “burattino”: anzitutto quando era premier della maggioranza “sbagliata” fra M5s e Lega. Forse per questo nessuno – sui media italiani – aggrottò troppo la fronte quando lo scorso febbraio il capo del governo italiano fu insultato così in pieno Parlamento europeo dall’ex premier belga Guy Verhofstadt, liberalmacroniano. Conte diventò semmai “burattinaio” (copyright Le Figaro) dopo il ribaltone di agosto. Quando il peggio che fu riservato al Conte 2 fu “Zelig”.



Eppure qualcosa di più pepato non sarebbe stato del tutto improprio. Il due-volte-consecutive-premier-mai-eletto era saltellato dall’oggi al domani dalla guida di una maggioranza M5s-Lega a una M5s-Pd-Leu-Iv. Non iscritto ma “sintonico” al partito-movimento di Beppe Grillo, il giurista-avvocato pugliese, ma anche auto-insignito di “una formazione di cattolico democratico”. Forte di un tweet-endorsement da parte del presidente americano Donald Trump nel mentre (si è saputo dopo) Palazzo Chigi stava concedendo all’amministrazione Usa i servizi (discussi) dell’intelligence italiana. Ma graditissimo – il Conte 2 – anche a un establishment Ue pregiudizialmente anti-trumpiano dopo la requisitoria-abiura da parte del Conte 1 contro Salvini, suo vicepremier per 12 mesi. E soprattutto dopo aver trattato e concesso i voti-salvagente degli europarlamentari grillini al nuovo presidente della commissione Ursula von der Leyen. Una cattolica conservatrice tedesca, già ministro della Difesa, già sotto inchiesta a Berlino per alcuni appalti controversi alla (Bundes)Wehrmacht.



È vero, un cartello “Conte burattino” è comparso all’inizio di dicembre sui banchi leghisti di quel Senato in cui il senatore Salvini, settimane prima, era stato duramente attaccato dal non-parlamentare Conte, peraltro senza eccezioni o contestazioni alcune. Si stava discutendo di come erano andate le cose fra Palazzo Chigi e l’Ue al tavolo del Mes, negli ultimi controversi mesi estivi. Era sotto i riflettori la parola del premier in carica e la presidente Elisabetta Casellati non ha potuto lasciar correre, sospendendo la seduta. Soprattutto, era già entrata nel vivo la crociata politico-mediatica contro ogni “linguaggio d’odio” lanciata dalla cosiddetta “commissione Segre” e strategicamente delineata dalla senatrice a vita in una grande intervista sul Corriere della Sera



Proprio sul quotidiano di Via Solferino, ieri, è stato riservato l’appellativo di “giullare” a un altro premier europeo: il britannico Boris Johnson, fresco reduce da un’epocale vittoria elettorale nella più antica liberaldemocrazia del pianeta. A trattare così’ “BoJo” è stato Sergio Romano, nella sua rubrica di analisi geopolitica. Romano – fra l’altro coetaneo della senatrice Segre – è un noto e prestigioso ex diplomatico (fra l’altro ambasciatore italiano presso la Nato e l’Urss). Da molti anni alterna l’insegnamento universitario, il saggismo storiografico e il polemismo giornalistico. 

Certamente Romano per primo si riconosce parte dell’élite cosmopolita, anzi di quella più ortodossamente liberale (l’ambasciatore è stato, fra l’altro, biografo di Giovanni Giolitti). Di quest’élite – nell’analisi sul Corriere di ieri – Romano non ha avuto timore di manifestare tutta la contrarietà corrucciata di fronte alle “democrazie in crisi”. Democrazie “malate” in cui prendono forma  – alla fine sotto gli occhi benevolenti delle élite – “proteste senza partiti e leader”: nelle quali il commentatore ha irreggimentato assieme Sardine italiane, giovani di Teheran e Hong Kong, ma anche “masse in America Latina (in Amazzonia? ndr) come ha ricordato Romano Prodi”. E naturalmente i teen seguaci di Greta.  

Con meno entusiasmo Romano è sembrato prender nota dei gilet jaunes e dei pensionati francesi in piazza (contro un presidente pur sempre  “eletto dal 66,1%”, sic) e dell’interminabile pasticcio politico spagnolo. Di sicuro Romano non si è addentrato nelle cause di questo “groviglio di crisi”, né ha proposto ricette o intraveduto sbocchi. Salvo preannunciare – con compunzione – che “sarà questo il problema cui dovremo dedicare la nostra attenzione nei prossimi mesi”. 

Prima, comunque, non ha mancato di additare in dettaglio al pubblico ludibrio: a) “la Gran Bretagna, dove gli elettori preferiscono essere governati da un giullare della politica piuttosto che da una delle migliori classi dirigenti europee” (sic); b) “gli Stati Uniti dove è stato eletto un presidente che rischia di essere incriminato per le peggiori colpe di cui un capo dello Stato possa macchiarsi (sic); c) “un’Italia che sa di avere una Costituzione invecchiata ma non riesce a cambiarla” (sic).  

Chissà cosa ne penseranno le élite progressiste nazionali per i quali la Carta italiana – ispirata in via stretta ai principi della democrazia rappresentativa – resta “la più bella del mondo”. E alla fine non è stata la Costituzione in vigore ad aver consentito al Presidente della Repubblica di reincaricare “Zelig” Conte per un governo di “resistenza democratica” che ha rimandato all’opposizione la Lega di Salvini? 

Eppure, a leggere Romano, le élite “liberaldemocratiche” italiane paiono ansiose di riprovare a cambiare dall’alto – o da fuori Italia – le regole costituzionali della Repubblica, pur a tre anni dalla sonora sconfitta referendaria di Matteo Renzi (e del presidente Giorgio Napolitano). Può darsi che le élite guardino al possibile avvento sulla scena politica nazionale del banchiere-tecnocrate Mario Draghi. Par di capire, in ogni caso, che vogliano regolare qualche conto con questi miti/riti “invecchiati” della democrazia popolare ed elettorale. 

Altrimenti – soprattutto se si vota troppo o al momento sbagliato – ormai si finisce male come a Londra, perfino a Londra: dove un “giullare” (laureato al super-meritocratico Balliol College di Oxford, ndr) ha vinto le 57esime elezioni consecutive e si è subito ritrovato a scrivere il Queen’s Speech letto dalla Regina Elisabetta davanti ai Lord. Né più, né meno come faceva tale Winston Churchill, qualche decennio fa, per la medesima sovrana. Che non è sembrata scomporsi affatto per la vittoria elettorale di Johnson il Giullare. E non si è mai permessa alcun hate speech verso il premier del suo Paese o di altre democrazie.