I grandi giornali dem che hanno espulso in un mese Joe Biden e acclamato Kamala Harris in una notte quasi avesse già battuto Donald Trump sono stati i primi ad alzare tutt’e due le sopracciglia davanti ai frammenti di piattaforma economica anti-inflazionistica volteggiati dalla candidata alla vigilia della convention di Chicago.



Una strategia “populista” – aggettivo spregiativo normalmente riservato a Trump – ha lamentato il Washington Post: iper-democrat, ma controllato dal più grande venditore al dettaglio del mondo, mister Jeff “Amazon” Bezos. Che si è evidentemente sentito il primo della lista fra i “price gougers” indicati da Harris come i suoi nemici numero uno se approderà alla Casa Bianca: i “pescecani dell’inflazione” (“quelli che fanno pagare un prezzo eccessivo per qualcosa”, secondo il Merriam-Webster).



Il New York Times ha invece scelto un sussiego più compassato. Ha titolato sui “dubbi degli economisti” riguardo una lettura troppo semplificata dell’inflazione. È stata comunque palpabile la delusione contrariata del giornale dei premi Nobel “liberal” – però mai disattento a Wall Street – per uno “slogan politico spacciato per programma economico”: nei fatti irrealizzabile (qualcosa che potrebbe ricordare “l’abolizione della povertà” annunciata dal Vicepremier italiano pentastellato Luigi Di Maio dal balcone di palazzo Chigi, peraltro dopo il varo reale del Reddito di cittadinanza promesso in campagna elettorale).



La Kamalanomics di un fenomeno che rimane un macigno sul quadriennio di Biden, irrimediabile nell’aver schiacciato poteri d’acquisto e valore dei risparmi, è apparsa in effetti parecchio manipolatoria. È sembrata quasi completamente ignorare il pesante effetto-guerre (interamente addossabile alle decisioni politiche dell’Amministrazione dem, a cominciare dal disastroso abbandono dell’Afghanistan) per riandare alla pandemia. Con una “teoria” non infondata ma discutibile perché mai validata.

Prima assioma: l’inflazione ha avuto la sua radice in una forte instabilità economica “esogena”, originata in Cina. Insomma: uno tsunami globale, cioè pur sempre qualcosa di cui non è possibile incolpare nessuno (semmai la Cina per aver ingannato e ostacolato il mondo). Secondo: l’economia pandemica è una situazione che i dem hanno ereditato nel 2021, dagli esiti già consolidati della gestione Trump della prima fase dell’emergenza. Implicito: la politica dei sussidi d’emergenza a pioggia – fonte presunta di “eccesso di domanda” – è stata avviata da Trump, Biden-Harris l’avrebbero solo modulata verso la conclusione.

È così che sul banco degli imputati dem finiscono oggi o quindi tutti coloro che avrebbero potuto alzare “eccessivamente” i prezzi cavalcando la crisi delle catene commerciali globali e gli stop imposti dai lockdown alla produzione. Non senza una prospettiva bizzarra: l’inflazione che alla candidata dem sembra interessare di più è quella del “grocery”, i beni di prima necessità. Nessun accenno aperto ai super-profitti realizzati dai colossi energetici a partire dalla crisi ucraina, oppure a quelli delle banche, beneficiarie della stretta sui tassi (a danno dei mutuatari-casa o delle piccole imprese, già colpite dalla pandemia). Dietro la voce grossa da comizio, cautela reale si annuncia anche nei confronti di un altro “elefante nella stanza dell’inflazione”: Big Pharma, settore con il quale Harris ha promesso di “negoziare” con più forza i prezzi d’acquisto dei farmaci da parte del Medicare statale.

Emerge qui la questione di fondo della stregonesca Kamalanomics al debutto: si possono concepire forme di controllo statale dei prezzi in un Paese che è diventato la primo potenza globale sul Comandamento Unico del Libero Mercato? Il massimo dell’intervento pubblico nel mercato è stato il New Deal inventato da Roosevelt un secolo fa e che Biden ha provato a rispolverare nei suoi piani di sostegno alla reindustrializzazione Usa (“Ira” nella transizione verde e “Chip Act” nel digitale on orientamento militare). E su questo versante la Kamalanomics si scontra nuovamente su obiezioni squisitamente politiche.

Harris è una candidata divenuta improvvisamente tale dopo essere stata invariabilmente giudicata “unfit” al ruolo e dopo la brutale decapitazione del Presidente in carica, di cui lei è peraltro la vice in carica da tre anni. Appare ovvia, anzi inevitabile la sua ansia di strapparsi di dosso e bruciare i panni indossati fino a oggi, per sfoggiarne di nuovi, più alla moda. Ma in ogni soluzione di continuità è automaticamente implicito un giudizio sull’operato del Presidente uscente: delle cui scelte Harris è stata però la prima “controfirma” istituzionale e continuerà a esserlo fino al 21 gennaio 2025. Fino ad allora – certamente fino al 5 novembre – gli equivoci sembrano destinati a continuare.

Biden andrebbe in teoria dimenticato dal roadshow elettorale dem, ma è ancora un asset irrinunciabile e prezioso: le decisioni alla Casa Bianca le prende ancora lui e solo lui. Se saranno utili alla vice-candidata Harris – ammesso che lui lo voglia – è però difficile prevedere. Se quindi neppure la convention di Chicago promette chiarimenti reali sui contenuti della candidatura di Harris, segnali eloquenti stanno giungendo in queste ore dall’ennesimo balletto sulla pelle degli ostaggi israeliani di Hamas.

La due giorni di colloqui ferragostani in Qatar – imposta da Biden, ancora fiduciosissimo nell’ultimo miglio verso il cessate il fuoco – si è conclusa senza esiti (sia Gerusalemme che l’Iran attendono ormai il nuovo inquilino della Casa Bianca). Il round a Doha avrà però una coda annunciata di una settimana: giusto l’arco della convention dem. La quale deve restare convinta – come l’intero elettorato – che per l’America di Biden/Harris Israele ha ampiamente superato ogni linea rossa e deve accettare la fine della guerra di Gaza. La vera “arma finale” contro Netanyahu sarebbe tuttavia la sospensione di ogni aiuto militare e finanziario a Gerusalemme. Nei fatti l’Amministrazione dem ha invece appena approvato un nuovo pacchetto di 14 miliardi di dollari di sostegni militari al Governo Netanyahu. A discapito – come gli aiuti all’Ucraina – del bilancio federale: da cui però Harris vorrebbe ora estrarre decine/centinaia di miliardi di dollari di supporti alle famiglie colpite dall’inflazione. Abbassando loro le tasse. Ma senza naturalmente rivelare a chi dovrà necessariamente alzarle.

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