La prima intervista di Kamala Harris dopo la convention dem di Chicago ha confermato le attese poco esaltanti. Gli stessi media più vicini alla vicepresidente-candidata non hanno potuto non sottolineare la povertà di contenuti del doppio faccia a faccia organizzato dalla Cnn (era presente anche il candidato-vice Tim Walz). Harris, certamente, non ha voluto scoprire le carte in vista del duello tv con Donald Trump, il 10 settembre. Doveva ribattere alle prime accuse di sfuggire un’intervista “botta a risposta” e lo ha fatto presso un network considerato “amico”: che infatti le ha evitato un confronto troppo serrato. Ma questo – fatalmente – le si è ritorto contro sul piano della chiarezza programmatica, che si accumula da quando è subentrata a Joe Biden nella corsa alla Casa Bianca.



La “vaghezza” (termine comune a tutti i commenti) non ha riguardato singole questioni: quelle di politica economica (soprattutto fiscale) o estera (crisi in Ucraina e Israele) piuttosto che l’agenda interna, soprattutto sulla frontiera dei flussi migratori. Harris ha dimostrato vulnerabilità nel vero snodo politico e personale del suo improvviso “balzo in avanti”: quanto, cioè, la sua candidatura a cavallo fra continuità e rottura promette di rispondere alle domande dell’America 2024. Contrapposta a un’altra candidatura in parte vecchia (un ex presidente oggi quasi ottantenne, battuto nel 2020, anche da Harris) e in parte “sempreverde” nella sua carica di contestazione a ogni potere o assetto costituito.



“È ora di voltare pagina rispetto all’ultimo decennio”: anche davanti alle Cnn, Kamala ha ripetuto un mantra che può contenere tutto, ma oggi appare pieno principalmente di contraddizioni. Voltare pagina rispetto a Trump 1 è evidente, anche se tradisce ancora una volta il gioco di rimessa cui sono ridotti da tempo tutti i “campi” di centro-sinistra in Occidente: chiedere voti esclusivamente contro i disparati schieramenti antagonisti impetuosamente affermatisi nel mondo proprio con l’avvento di Trump a Washington. Nel frattempo è difficilissimo, per la vice subentrata in corsa a un presidente promosso dalle primarie “dem” – ma poi bocciato dai sondaggi e dall’oligarchia del partito –, marcare la distanza da Biden. Che è ancora in carica (e fino a gennaio ha poteri intatti) e di cui lei è ancora vice in carica. Un presidente che lascerà la Casa Bianca con molti dossier “in rosso” (certamente la gestione delle crisi in Afghanistan, Ucraina e Medio Oriente) ma non senza aver impostato una politica economica neokeynesiana e neostatalista.



Negli stessi giorni anche la leader dei “dem” italiani sembra soffrire la stessa debolezza. Pur incarnando Elly Schlein una novità vera ai vertici del Pd, pur essendo emersa dalle primarie e non dai corridoi del Nazareno, dopo due anni la segretaria “dem” non ha ancora definito una sua strategia, la sua offerta politica a specifici segmenti di domanda all’opposizione del governo di centrodestra. Dopo l’inatteso “successino” al voto europeo – che in molti preconizzavano invece come conclusione di un caotico “interregno” nel Pd – Schlein non può sottrarsi all’impegno di costruirsi come “premier ombra”, fin d’ora candidata dell’intera opposizione al prossimo voto, contro la prima premier donna della storia repubblicana. La sua partita sta chiaramente solo cominciando, ma è evidente che – non meno di Kamala Harris – dovrà precisare le proposte del Pd sui punti chiave dell’agenda di governo.

Finora non lo ha fatto, salvo lamentare “le cose che non vanno” e contestare le scelte del governo, tutto sempre e “a prescindere”. Ma non appare scorretto ipotizzare che Schlein abbia lo stesso problema di Harris: prendere le distanze dal suo stesso partito. Da “grandi vecchi” mai fuori scena e da “cacicchi” odierni; da blocchi sociali che vengono ancora narrati come serbatoi di voti “dem” e non lo sono più; da media che imbracciano l’opposizione a Meloni non per reale sostegno al Pd, ma in via subordinata a interessi economici e non politici. Da ideologie – anzitutto quella verde – invecchiate molto più precocemente di quelle già defunte dopo la caduta del Muro. Dal Mercato come facile mito – abbracciato ciecamente dall’Ulivo trent’anni fa, all’epoca delle privatizzazioni. Non da ultimo: dall’Europa come oggetto di idolatria strumentale; quella incarnata da un presidente francese ridotto alla parodia del Re Sole. Battuto dalla sinistra. Già: perché Schlein non è a Parigi a sostenere i leader di NFP in trincea per avere l’incarico di formare il nuovo governo? E hanno candidato un’economista di 47 anni.

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