Così le trovo, così le riporto: «Mio figlio dopo la laurea in ingegneria navale, in Italia ha avuto 4 offerte a 500 euro ed è andato a Brema dove lo pagano 3.000 euro al mese». «Un mio giovane parente, laureato al Politecnico di Milano in ingegneria industriale e specializzatosi al Delft in Olanda, ha contattato varie aziende italiane. Una di queste gli ha offerto l’assunzione con uno stipendio di 1.250 euro. Il ragazzo ha rifiutato e due mesi dopo è stato assunto da una grande azienda del nord Europa con uno stipendio iniziale di 3.350 euro». «Ho 42 anni, parlo 4 lingue e ho esperienza manageriale internazionale e chiedevo un basic salary netto di 3.000 euro al mese più commission. Com’è che continuo a ricevere offerte da Londra, Dublino, Amsterdam, Berlino, Hong Kong e dall’Italia quasi nulla?».



Dunque il lavoro, dall’impresa, viene considerato un costo. Da ridurre, costi quel che costi; ne va della produttività e della competitività necessarie per stare sul mercato. Lo si riduce mediante l’automazione dei processi, la trasformazione digitale, con produzioni capital intensive, finanche facendo pagare dazio a quel lavoro, reo di aver sovrapprodotto quelle merci invendute.



Si ottiene, per quelli dell’alta propensione al consumo, non lavoro e/o lavoro sottopagato. Per riffe o per raffe l’impresa, nel trasferire la ricchezza generata dalla crescita economica, mette in conto al lavoro quel costo, pagato con un insufficiente potere d’acquisto.

Un momento: pure il lavoro di consumazione, non svolto per quest’insufficienza, finisce con l’avere un costo che deve essere sostenuto da chi trae vantaggio dall’esercizio invece svolto; magari da pagarsi con quanto risparmiato dai trasferenti nel trasferimento.

Suvvia, pressappoco una partita di giro oppure… beh, l’innesco del paradosso della parsimonia!Prosit.