Da quando è nato un paio di settimane fa, abbiamo seguito sul Sussidiario il “caso Segre” con il massimo dell’avvertenza nel separare il rispetto assoluto e dovuto per la figura morale della senatrice a vita, reduce da Auschwitz, dalla lettura politica degli assai meno rispettabili tentativi di strumentalizzazione in corso della sua stessa figura.



Già nei giorni scorsi Liliana Segre – con no comment più silenziosi che diplomatici – aveva preso le distanze dalla denuncia mediatica sui “200 messaggi al giorno” di odio antisemita che l’avrebbero  presa di mira da quando siede in Senato. L’altra sera si è vista obbligata a un passo più pronunciato: declinare ufficialmente l’ipotesi di sua candidatura al Quirinale avanzata da Lucia Annunziata (direttore di Huffington Post) e subito fatta propria da Carlo Verdelli, direttore di Repubblica (il quotidiano che per primo ha lanciato l’affaire Segre). Ipotizzarne il perché non sembra difficile né dietrologico e può anzi fornire ulteriori spunti di riflessione sull’attualità politica italiana.



Il caso Segre – nato in poche ore nei dintorni dell’ultimo voto regionale in Umbria – è subito apparso come uno dei tanti cavalli “narrativi” – più o meno selvatici – di cui il Pd sembra avere evidente e continua necessità per condurre una battaglia difensiva attorno al governo Conte-2: quella contro un centrodestra formalmente relegato all’opposizione dal ribaltone di agosto, ma sostanzialmente maggioritario nel Paese e pronto a chiedere una verifica elettorale. Le debolezza della maggioranza giallorossa – soprattutto frammentata all’interno delle singole forze –  sta giocando ripetutamente  brutti scherzi. E la nota della senatrice Segre sembra una prova evidente di “danno collaterale” autolesionistico e neppure troppo trascurabile.



Il mandato di Sergio Mattarella al Quirinale non scade prima del gennaio 2022 e il governo Conte-2 è nato con l’esplicito intento di completare la legislatura (inizio 2023) e quindi di garantire un’elezione del presidente della Repubblica al riparo della supposta “onda nera” impersonata da Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Al momento, anzi, la rielezione di Mattarella è un’ipotesi di lavoro più che consolidata. Perché allora – al di là della necessità di sostenere il caso Segre, subito appannato nella sua stessa credibilità giornalistica – cominciare a far rotolare oggi i dadi sul tavolo di “Quirinale 2022”? Perché farlo dal campo del Pd, dalle cui file proviene lo stesso Mattarella? Perché farlo quando le prove di immediate e grave inefficienza del Conte-2 cominciano ad allungare qualche ombra sullo stesso Quirinale, che tre mesi fa ha avallato istituzionalmente il “ribaltone” a sfavore dell’ipotesi di voto anticipato? Non da ultimo: perché chiacchierare di Quirinale con toni da circolo d’élite, quando vi è chi ha preso a parlarne con più solido linguaggio politico?

Lo ha fatto il leader dell’opposizione, in realtà titolare della maggioranza relativa dopo il voto europeo di maggio. Salvini ha affermato nei giorni scorsi che non esiterebbe a votare per il Quirinale Mario Draghi, fresco “pensionato” dalla presidenza Bce. E – secondo quanto ventila un commentatore come Stefano Folli – la Lega starebbe proprio in queste ore valutando forme di sostegno “neo-europeista” alla commissione von der Leyen, che fra 11 giorni affronterà un cruciale voto di fiducia all’europarlamento.

Sono passati quattro mesi ma sembrano ancora più lontani i giorni in cui Giuseppe Conte-1 barattò di nascosto il ribaltone, in preparazione alle spalle di Salvini, con l’appoggio di M5s alla debolissima “commissione Orsola”. Ora invece la virtuale “co-presidente” Margrethe Vestager ripete che “con le forze sovraniste la Ue deve confrontarsi”. Proprio quando un altro clamoroso appannamento politico – quello dei banchieri centrali del Nord Europa – sta regalando a Draghi il profilo unico di statista veramente capace di comprendere tutti i punti cardinali dell’Unione, tenendo assieme una Ue ormai irrimediabilmente di ieri con un’Europa tutta da ricostruire nel domani.