Sulla Silicon Valley, di questi tempi, non sembra tirare una buona aria. Le recenti uscite del Presidente Trump e le indagini avviate dalla Pubblica amministrazione americana confermerebbero una certa sfiducia, soprattutto nei confronti dei colossi dell’high tech. Ciò, specialmente, sotto due aspetti. Il primo è senz’altro relativo alla tutela della privacy, scatenato soprattutto dal caso “Cambridge Analytica”, l’azienda inglese che ha usato, senza consenso, i dati degli utenti di Facebook per azioni di propaganda mirata on line, tale da poter influenzare addirittura gli esiti elettorali, incidendo, quindi, in misura significativa sui meccanismi politici che caratterizzano le democrazie occidentali.



Non è inutile ricordare il rischio palesato da questi fatti, più o meno eclatanti, al di là della retorica post evento; ci aiutano a focalizzare il problema – a mio avviso – le parole del Presidente del Garante per la protezione dei dati personali, Antonello Soro, al convegno del gennaio 2019 sui confini del digitale: “Nell’era digitale il rapporto di vicendevole implicazione tra tecnica, società e diritto diviene più profondo, quando superare il limite non appare più umana tracotanza – la hybris dell’antica Grecia – ma, come suggerisce Remo Bodei, ‘il maggior vanto dell’età moderna’. Viviamo in un tempo nel quale la tecnologia digitale concorre alla definizione di criteri valoriali e orienta sempre più le decisioni private e pubbliche. E la capacità di autoapprendimento dell’intelligenza artificiale tende a marginalizzare, in molte circostanze, il contributo dell’uomo nel processo decisionale. La rete del resto, come ogni sistema relazionale, rischia di determinare in forme nuove quelle asimmetrie – anzitutto di potere – da cui aveva promesso di liberarci e il digitale, per sua stessa natura privo di confini, diviene esso stesso confine, sempre più poroso, del nostro essere persone, segnando il limite che separa la libertà dal determinismo. Se prive di regole, le nuove tecnologie possono alimentare un regime della sorveglianza tale da rendere l’uomo una non-persona, l’individuo da addestrare o classificare, normalizzare o escludere”.



L’assenza di regole in un pianeta ormai interconnesso, ad esempio, ha indotto numerose “smart cities”, soprattutto orientali a brevettare forme di controllo pubblico sulle persone, come il monitoraggio costante, con tecniche di sentiment analysis, dei contenuti pubblicati sui social. È il caso della piattaforma “Dragonfly”: un progetto di Google – recentemente abbandonato anche per la generale protesta suscitata – per i motori di ricerca cinesi, che avrebbe dovuto censurare informazioni su diritti umani, democrazia, religione e proteste pacifiche nell’esposizione dei risultati di ricerca.



Il secondo aspetto è legato a motivi di antitrust, a comportamenti potenzialmente lesivi della concorrenza. È un timore non solo americano: anche in Europa è stata avviata un’indagine sui rapporti tra Amazon e i venditori terzi sullo store virtuale, che potrebbe avvantaggiarsi indebitamente usando le informazioni della loro clientela. Insomma, la sensazione che crescere troppo sarebbe pericoloso per tutti, gettando le basi di una sorta di cannibalismo universale, sembra essere diventata convinzione dei manager delle stesse aziende, se il cofondatore di Facebook, Chris Hughes, ha di recente osservato che l’azienda dovrebbe essere divisa, essendosi troppo ingrandita, raggiungendo dimensioni tali da rendere assai lacunoso il controllo sulle proprie attività e, di conseguenza, il controllo sui rischi del sistema.

Anche qui, occorre fissare bene il punto critico: il nuovo petrolio è rappresentato dai big data, la materia prima dell’intelligenza artificiale, meta di una vera e propria corsa agli armamenti: la Cina compete per il primato nella costruzione delle maggiori reti 5G nel mondo, che consentiranno di conquistare la leadership nell’intelligenza artificiale di domani, ridisegnando assetti di potere, come mostra – a mio parere – la guerra commerciale con gli Usa, sottesa forse, più che dai dazi, dall’idea occulta che è meglio che nessuno ottenga la supremazia tecnologica, almeno per ora.

Non va diversamente con “libra”, la nuova criptovaluta ideata da Facebook, per spostare le fonti di ricavo dalla pubblicità ai servizi di pagamento, come avviene già sul mercato cinese, dove per la piattaforma WeChat i ricavi provenienti dalla pubblicità sono ormai meno di un terzo. “Libra” è stata bocciata dalle varie Autorità, dal Presidente Trump ai Regolatori Americani ed europei, che guardano al precedente di “bitcoin”. Eppure il progetto sembra interessante e sicuro: per evitare l’elevatissima volatilità tipica delle criptovalute, “libra” sarebbe ancorata ad attività reali (depositi bancari e titoli di Stato a breve) denominati nelle valute tradizionali, in modo da renderne stabile il valore nel tempo e appetibile l’utilizzo. Facebook renderà disponibile sui propri social un portafoglio digitale per gestire transazioni in “libra”, utilizzando semplicemente lo smartphone e saltando a piè pari gli intermediari.

Forse è proprio questo concetto che spaventa, ben espresso dalle parole di Zuckerberg: “Credo che le persone debbano potersi scambiare denaro così facilmente come mandano una foto”. E per scattare, sviluppare, inviare foto, da tempo, si sa, non c’è più bisogno dei fotografi di professione.