Pochi giorni fa il ministro dell’Economia tedesco, Robert Habeck, ha fatto alcune dichiarazioni non scontate sullo stato dell’economia di Berlino. Secondo Habeck, la Germania dovrà far fronte a cinque anni difficili di transizione green, fino al 2030, che “peseranno” sulle persone; il ministro ha attribuito le recenti difficoltà dell’economia tedesca, già in recessione, agli alti costi energetici. Infine, ha proposto come soluzione il ricorso al debito per sussidiare le imprese energivore in modo che “possano resistere alle sfide della transizione e avere soldi da investire”. Per il ministro l’alternativa è questa: “Prendiamo soldi a prestito o cessiamo di avere un’industria?”; ha poi aggiunto che “non abbiamo molto tempo altrimenti le imprese diranno: investiremo ma non più in Germania”.
Queste dichiarazioni danno la misura della sfida e dei rischi assunti dall’Europa e gettano una luce sugli aspetti meno pubblici della transizione verde. La prima ammissione è che la crisi tedesca arriva dagli alti costi energetici a seguito della fine delle forniture di gas russe; questo accade nonostante la Germania sia il Paese che più ha investito, per importi dell’ordine di centinaia di miliardi di euro, in energia eolica mentre chiudeva gli impianti nucleari. La seconda ammissione è che la transizione pesa sulle persone e minaccia la fine dell’industria tedesca.
Habeck propone come soluzione al rischio di deindustrializzazione della Germania il ricorso al debito per sussidiare le imprese e proteggerle dai concorrenti che invece continuano a godere di costi energetici bassi. Presenta un orizzonte di cinque anni che però appare del tutto arbitrario e funzionale a un messaggio politico; il 2030 non è né troppo vicino per essere smentito subito, né troppo lontano per essere ritenuto impraticabile. La transizione green non potrà mai essere completata in soli cinque anni soprattutto se passa dall’idrogeno e dall’ammoniaca. Le tecnologie a oggi disponibili, soprattutto per il loro impiego industriale sua larga scala, non sono pronte e l’utilizzo di idrogeno e ammoniaca come nuovi vettori richiedono enormi quantità di energia elettrica a buon mercato per potere essere competitivi. Cinque anni di sussidi e debito sono una previsione molto ottimistica. Le decisioni di investimento delle imprese, oltretutto, eccedono questo orizzonte temporale che non basta per frenare il processo di deindustrializzazione.
Guardando oltre la Germania ci si chiede cosa debba o possa fare chi non ha lo spazio fiscale di Berlino. L’idea di ricorrere ad ampi sussidi per governare la transizione e salvare le imprese è disponibile per cinque anni solo a chi ha poco debito e oltre questo orizzonte probabilmente a nessuno. È inevitabile chiedersi come possano competere le imprese italiane senza sussidi equivalenti e senza la leva della valuta all’interno dell’area euro. Questo vale anche per settori in cui le imprese tedesche non sono presenti; il Governo italiano, all’interno dello schema di Habeck, dovrebbe sussidiare le sue imprese per rimetterle in gioco rispetto a quelle di Paesi che non hanno una crisi energetica.
La discussione sulla transizione energetica, ancora oggi, avviene dando per scontato che il benessere e lo stile di vita europeo e italiano non siano messi veramente in discussione; se lo sono, è solo per i dettagli, per qualche comportamento “al margine” che non intacca per davvero le conquiste raggiunte negli ultimi 70 anni in termini di sanità, aspettative di vita, disponibilità di energia elettrica, di cibo o di libertà di movimento. Il rischio di deindustrializzazione paventato da Habeck, invece, rimette in discussione tutto e spiega la riluttanza dei Paesi extraeuropei a seguire la via di Bruxelles: preferirebbero raggiungere il benessere europeo prima, eventualmente, di rischiare di perderlo.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.