Sono trascorsi ormai più di dieci giorni dal rilascio dei pescatori italiani trattenuti per tre mesi in Libia e sia la presidenza del Consiglio, sia il ministero degli Esteri continuano a non smentire le voci di un intervento decisivo di Vladimir Putin. Sarebbe stato il presidente russo a negoziare – in contropartita per il leader libico Khalifa Haftar – la presenza del premier Giuseppe Conte e del ministro Luigi Di Maio a Bengasi: capitale della Cirenaica controllata da Haftar in conflitto da sei anni con il governo Serraj, l’unico riconosciuto in Libia dall’Onu (e formalmente anche dall’Italia).
Che la “pista Putin” fosse credibile – come poi si è rivelata – era però evidente considerando la fonte d’eccezione delle prime indiscrezioni: l’ex premier Silvio Berlusconi, storico amico personale del leader del Cremlino. Un legame talmente forte da aver già segnato in termini decisivi un altro passaggio importante della storia italiana contemporanea: andato in scena nel 2011, proprio sul teatro libico.
Forse neppure lo stesso Conte – che da più di due anni detiene in via anomala la delega ai servizi di intelligence – è a perfetta conoscenza di quanto accadde nell’estate di nove anni fa. Per la verità non esiste tuttora una ricostruzione attendibile condivisa delle cause e degli effetti di diversi eventi. È comunque incontrovertibile la coincidenza temporale fra la crisi dello spread italiano (innescata all’inizio dell’estate dai giudizi di Standard & Poor’s) e l’intervento militare in Libia di una coalizione Nato guidata dagli Usa di Barack Obama e dalla Francia di Nicolas Sarkozy per rovesciare il regime quarantennale del colonnello Gheddafi. Quest’ultimo fu linciato il 21 ottobre 2011 mentre tentava a di fuggire (Sarkozy è finito poi sotto inchiesta in Francia per presunti finanziamenti elettorali da parte del dittatore libico). Tre settimane dopo Berlusconi decise di gettare la spugna da Palazzo Chigi: lo spread italiano era arrivato a 550 e sembrava incontenibile. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, pilotò la nascita di un Governo istituzionale presieduto da Mario Monti.
I teorici del “complotto” continuano a vedere nell’attacco al debito pubblico italiano il veicolo di un indebolimento preventivo di Berlusconi: nel mirino dei leader G7-Nato (a cominciare dal presidente americano Barack Obama) anche per i consolidati rapporti con Putin (al pari dell’ex cancelliere tedesco Gerhard Schroder) e con Gheddafi, un musulmano laico anti-americano naturalmente proiettato verso Mosca.
Il lungo percorso della progressiva normalizzazione delle relazioni fra Roma e Tripoli si era mosso sulle rotte geopolitiche petrolifere presidiate dall’Eni (perennemente osteggiata dalla Francia) e su una lunga serie di intrecci finanziari: dall’ingresso di fondi libici nel capitale della Fiat fino dall’intervento in UniCredit, fino ai progetti infrastrutturali pensati da Autostrade.
Neppure incidenti di primo livello diplomatico (Ustica o il bombardamento Usa di Tripoli nel 1984) avevano spezzato lo storico asse Italia-Libia: semmai – prima ancora del “caso Berlusconi” – avevano deteriorato i rapporti personali con gli Usa del premier Bettino Craxi, infine travolto da Mani Pulite). Dal 2011, invece, per l’Italia la Libia è divenuta un problema di gravità crescente: si tratti degli interessi economici dell’Eni oppure dei flussi migratori gestiti sulla costa nordafricana da bande armate di ogni fazione. A poche decine di chilometri dalle coste italiane, la Libia è oggi terreno di una “guerra mondiale per procura”: su cui ultimamente è entrata la Turchia neo-ottomana; ma nel quale Haftar gode dell’appoggio aperto di Francia, Emirati Arabi, Egitto, mentre nello scacchiere agiscono da sempre Israele e l’islam radicale. Sotto gli occhi attenti della Cina, che ha ormai neo-colonizzato ampie porzioni del continente africano.
I pescatori di Mazara del Vallo sono finiti, letteralmente, nelle reti di una partita geopolitica con pochi confronti oggi sul globo. E non c’è da stupirsi che vi sia rimasto impigliato nuovamente il premier italiano in carica, la cui legittimazione interna e internazionale è minima. Non è facile tuttavia giudicare se è stata più grave l’umiliazione istituzionale patita in Libia da Conte oppure quella personale di Berlusconi, dileggiato in pubblico – all’epoca – da Sarkozy e dalla cancelliere tedesca Angela Merkel. Non è nemmeno agevole prevedere se Conte sarà infine obbligato a dimettersi come il Cavaliere: che pure sedeva da tre anni a palazzo Chigi in virtù di una maggioranza solidissima, conquistata al voto 2008. Di certo la mosconata natalizia di Berlusconi sullo zampino di Putin in Libia – nove anni dopo – ha parecchio l’aroma di una nemesi in arrivo su Conte.