A lume di naso, e senza farla troppo lunga, né troppo keynesiana, quando uso la moneta penso: dispone il remunero di chi poi dovrà spenderla; indica nel contempo il modo per esser spesa al meglio. Dunque, quella stessa moneta che, per entrare in esercizio, deve essere prima guadagnata da chi poi dovrà spenderla: vale, perché consente di comparare e misurare il valore di quel che debbo acquistare; intermedia, facendo il prezzo tra il valore del mio voglio e di quel che mi offrono; tenuta in tasca, diventa una riserva di valore da spendere.
Orbene Chiarissimi, che per obbligo di ruolo la studiate, non intendo sfidare le vostre competenze, appendo solo una premessa poi qualche dilemma. La moneta si riceve in cambio di una prestazione d’opera. I remunerati ne mettono in tasca in ragione della produttività della prestazione effettuata. Il corso legale e la fiducia che raccoglie la rendono spendibile.
Bene, nell’evo economico d’oggi, dove l’utilità marginale della spesa diminuisce mentre cresce quella della domanda, si pone il dilemma della fiducia per quella moneta che regola gli scambi. Se la moneta remunera il capitale e il lavoro per quell’aver prodotto, quando gli spiccioli che hai in tasca non consentono di poter fare la spesa che occorre a smaltirlo, quei fattori dovrebbero svalutarsi entrambi. Già, dovrebbero. Per quel dannato meccanismo di trasferimento, invece, viene svalutato solo il lavoro; ai gestori del capitale, altrettanto svalutato, la moneta resta in tasca con in più il resto del tagliato a chi ha lavorato.
Di male in peggio. Il malloppo non finisce neppure nelle tasche giuste, tra chi non ha bisogno e chi ne ha, per acquistare quel che si offre cosicché quest’ampia riserva di valore, non speso per fare la crescita, finisce svalutato riducendo il valore pure della moneta. Per non far crollare quella fiducia che l’ha resa spendibile e che ridotta riduce pure gli acquisti, le Banche titolari del conio aizzano azioni monetarie, appunto, per riparare il danno dando sostegno a quei prezzi che, sostenuti, peggiorano quel già insufficiente potere d’acquisto. Si chiama, insomma all’ozio, non al negozio, limitando l’uso proprio della moneta.
Una moneta, monetaristicamente liquida, che rischia l’illiquidità? Se sì, un’illiquidità che sottrae valore proprio a quella misura del valore: bella, no? Ecco, appunto, da dilemma a dilemma che rivolgo alla vostre competenze: cosa dite di una moneta “integrata” che oltre a farsi strumento con cui remunerare il produrre, remuneri pure il consumare misurandone il valore d’esercizio? Suvvia, una moneta che remuneri un potere d’acquisto, interamente garantita da asset reali: quelle riserve monetarie, messe al pizzo da quelli del capitale che, rifocillando, forniscano la garanzia d’impiego del “Credito di Spesa” (quello “spenderò” necessario per poter svolgere, senza renitenza, parte dell’esercizio di ruolo), prodigo figlio d’un esercizio di consumazione remunerato.