La “tassa Letta” – il ripristino dell’imposta di successione per i patrimoni superiori a un milione – non cessa di far discutere. E fra mille interrogativi, tecnici e politici, uno riconduce certamente a un precedente ben noto al leader del Pd: la celebre lode alle “tasse bellissime” da parte di Tommaso Padoa-Schioppa, titolare del Mef nel Prodi-2, di cui Letta era sottosegretario alla Presidenza. Il Pd è nato in quella fase e dal 2007 non è mai riuscito a imporsi in alcuna delle tre elezioni politiche susseguitesi.
L’unica vera affermazione alle urne i dem l’hanno riportata alle europee del 2014, sulla scia degli 80 euro “de-fiscalizzati” alle famiglie dell’esordiente Matteo Renzi. Fu proprio il sindaco di Firenze a “rottamare” il governo Letta, figlio della “non vittoria” elettorale di Pierluigi Bersani, a sua volta figlia di un’irresolutezza di fondo: quella fra il rigorismo tecnocratico di Mario Monti (fattosi centro politico ma sconfitto al voto 2013) e il populismo antagonista di M5S. Che invece non ha mai avuto esitazioni a costruire la sua ascesa sulla redistribuzione forzosa della ricchezza. Lo schiacciante successo elettorale di M5S nel 2018 si è basato sulla promessa del reddito di cittadinanza; puntualmente mantenuta da tre anni dai due governi Conte (il secondo col Pd in coalizione).
È lecito pensare che, al rientro dal think tank parigino Science Po, il neo-segretario del Nazareno stia provando a far nuova sintesi di diverse tradizioni politiche: il classico “tax and spend” della socialdemocrazia europea (ma anche dei dem Usa tornati alla Casa Bianca con Joe Biden); e la revisione “hard” del populismo renziano, moltiplicato per dieci da M5S nel reddito di cittadinanza. Perché il Pd non dovrebbe tentare di richiamare “a pagamento” almeno una parte di quei voti “in libera uscita”? Che in buon numero sono stati espressi da quei “giovani poveri” cui non per caso Letta vorrebbe precostituire una “dote” ritassando i patrimoni delle famiglie più ricche (che in gran parte non votano Pd, ma i partiti di centrodestra).
Il calcolo elettorale di Letta – che guarda a una prima scadenza elettorale fra qualche mese nei grandi comuni – appare lineare fino all’elementarietà. E appare certamente depurato dalla demagogia pentastellata che per tre anni ha insistito (spalleggiata dalla Lega per “quota 100”) nel contestare i parametri Ue di stabilità finanziaria. Più vicino all’approccio di Biden, il leader Pd non vuole distribuire a pioggia risorse in debito/deficit e neppure cavalcare una patrimoniale generalizzata cui pensava l’ex titolare del Mef, Roberto Gualtieri. La sua “imposta di successione 4.0”, può assomigliare a una tassa di scopo. Letta del resto, è un popolare proveniente dalla Margherita, non un ex funzionario del Pci/Ds. È un europeista convinto, anche se è vero che proprio nei giorni scorsi l’ex leader dell’Ulivo ed ex presidente della Commissione Ue Romano Prodi, ha co-firmato un appello fiscale assieme a Vincenzo Visco, cioè con l’ex vice-ministro di Padoa Schioppa con delega alle finanze nel Prodi-2, da sempre su posizione ideologiche in campo fiscale (è lui il maestro di Gualtieri, recente teorico della necessità di colpire chiunque dichiari più di 70mila euro all’anno di imponibile).
Prodi e Visco hanno sostenuto con forza una “minimum tax” euramericana indirizzata in via prioritaria contro i giganti del web. Nell’uscita non era tuttavia facile distinguere fra indubbie ragioni correnti (l’elusione strutturale perseguita da decenni dai colossi “apolidi”, non solo tech) e atavici rigurgiti anti-impresa della sinistra cattolica e comunista: gli stessi con cui del resto deve fare conti quotidiani lo stesso Biden, premuto dai dem radicali, quelli che hanno impedito “a prescindere” ad Amazon di creare a New York 45mila nuovi posti di lavoro. Le stesse tensioni si percepiscono chiaramente in Italia attorno all’ipotesi di “tassa Letta”: è un progetto di riforma fiscale “new”” (tecnicamente in orizzonte Recovery, politicamente in salsa “verde”)? Oppure “old”, a cavallo fra sinistra novecentesca e populismo elettoralistico grillino?
La garbata replica di Draghi a Letta – la prima fase Covid-exit non è il momento per mettere sul tappeto tassazioni straordinarie – è parsa celare questioni più profonde e sostanziali. La prima: con il rapporto debito/Pil al 160% e 1.700 miliardi di risparmio privato in conti bancari e postali, ri-sollevare l’ipotesi di imposizione patrimoniale in Italia può risvegliare i “falchi frugali” del Nord Europa, da sempre convinti che i risparmi e capitali delle famiglie possano essere utilizzati per ridurre drasticamente il debito (questo, fra l’altro, anche nell’interesse delle giovani generazioni italiane). Non è affatto escluso che questa strada debba alla fine essere imboccata nell’aggiustamento di un percorso di rientro dell’Italia in parametri Ue prevedibilmente aggiornati. Draghi, dal canto suo, sta cercando a tutti i costi di evitare soluzioni traumatiche. Sta cercando anzitutto di rilanciare in fretta il Pil, abbassando così la febbre del parametro-debito. E sta faticosamente costruendo il consenso in sede Ue attorno alla logica “eurobond” che migliorerebbe strutturalmente il rating della Repubblica: soprattutto quando cesserà il “Quantitative easing” della Bce. L’unica certezza è comunque che ogni riforma fiscale – coerente con gli impegni Pnrr – sarà disegnata da lui
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