La Nato vince nel caposaldo ceco – vedendo issato a Praga come nuovo Presidente l’ex generale atlantico Petr Pavel – nei giorni in cui accusa una sconfitta tattica in Svezia. Qui l’incidente di una copia del Corano data alle fiamme davanti all’Ambasciata turca di Stoccolma ha provocato la dura reazione di Ankara e il virtuale congelamento del sì all’ingresso svedese nell’Alleanza.



In Repubblica Ceca l’ex Presidente del comitato militare della Nato si è imposto sull’ex Premier-miliardario Andrej Babis. Pavel si è presentato alle urne con una chiara scelta “occidentale”, contrastando con successo un rivale vicino invece alle posizioni populiste di tenore filorusso della confinante Ungheria di Viktor Orban. È stato visibile il significato di un esito elettorale abbastanza netto (57 a 43) nello scenario di crisi geopolitica nell’Est Europa (e non più tardi di ieri un editoriale di Repubblica proponeva in Italia l’istituzione di un “comitato di sicurezza nazionale”). Sono peraltro evidenti anche gli interrogativi suscitati dall’arrivo diretto di un “generalissimo” Nato alla più alta carica di una democrazia post-sovietica, frutto di una scissione (pacifica) con la Slovacchia nel complicato riassetto balcanico dal 1989 in poi. Se la Repubblica Ceca si può comunque considerare “stabilizzata” e la Polonia è nel frattempo divenuta il più forte riferimento degli Usa nell’Ue, continua l'”antagonismo” filorusso di Budapest mentre sul Kosovo crescono le tensioni con la Serbia, oggetto già nel 2000 di un'”operazione militare speciale” della Nato (in prospettiva storica l’avanzata atlantica verso Kiev cominciò allora).



In Svezia la situazione non appare meno complessa. Il fatto che l'”incidente del Corano” sia stato verosimilmente provocato da agenti russi non depotenzia incognite anche interne sul Paese scandinavo. Dopo il voto dello scorso settembre, l’esecutivo Kristerrson è imperniato sul “Partito Moderato” di centrodestra, ma non senza il determinante appoggio esterno dei “Democratici Svedesi”: forza emergente di destra estrema, nazionalista e xenofoba. Non propriamente un partito “euro-occidentale”: tanto che Stoccolma – appena iniziato il semestre di presidenza Ue – ha lasciato capire di non essere disposta a discutere politiche europee più aperte sulla gestione dei flussi migratori dal sud. Salvo colpi di scena, la Svezia rimarrà dunque in un limbo scomodo alle porte della Nato almeno fino all’estate: dopo le elezioni in Turchia, ma anche dopo la prevedibile ripresa delle operazioni terrestri in Ucraina.



L’inizio del 2023 – secondo anno di guerra sul fronte russo ucraino – si conferma quindi alterno per la Nato. E non è facile concordare con quanti hanno visto nella “svolta dei tank” un rafforzamento dello schieramento atlantico contro la Russia. Nonostante le fortissime pressioni internazionali, la Germania ha a lungo respinto la raccomandazione giunta dal vertice atlantico di Ramstein. Ha invece sbloccato l’invio dei Leopard soltanto sulla base di un’intesa bilaterale diretta con gli Usa, che hanno acconsentito a condividere l’impegno politico-militare a favore di Kiev (lo ha notato ieri, sul Messaggero, un editoriale dell’ex presidente della Commissione Ue Romano Prodi), in escalation personale e politica contro la chiusura Nato a soluzioni negoziali del conflitto.

Berlino ha voluto chiaramente confermare una posizione di forte autonomia geopolitica all’interno della Nato (oltreché rispetto all’Ue). Si consolida dunque una postura tedesca più ricca di incognite che di certezze. Una questione fra molte: è sicuro che la Germania rafforzerà e modernizzerà la sua flotta di “panzer”, ma è difficile predire se e a chi sarà disposta a venderne (per esempio alla Polonia, che sta sguarnendo i propri arsenali per sostenere l’Ucraina).

Una Nato che l’aggressione di Vladimir Putin sembrava aver resuscitato come struttura geopolitica sovranazionale, si accinge quindi ad affrontare mesi impegnativi: sul piano militare, in vista della ripresa annunciata delle ostilità sul teatro ucraino; ma soprattutto sul piano politico interno all’Alleanza. Fra giugno e settembre dovrebbe concludersi la “prorogatio” del Segretario generale Jens Stoltenberg: un ex Premier europeo (secondo una prassi non scritta), ma proveniente da un Paese non-Ue come la Norvegia. Permanentemente schiacciata sul bellicismo Usa in terra europea, la posizione di Stoltenberg si è fatta più difficile allorquando Oslo è divenuta la principale beneficiaria dell’iperinflazione sul gas che ha duramente colpito tutte le economie europee importatrici (nel frattempo 30 fra i norvegesi più ricchi – miliardari o centimilionari in dollari – hanno chiesto la residenza fiscale in Svizzera).

Sulla successione al vertice Nato la nebbia resta fitta: anche se non sono sorprendenti alcune “avance” di stampa proveniente da Oltre Atlantico a favore di una candidatura “rosa”. Ma nomi deboli come i primi fatti filtrare (la Vicepremier canadese Chrystia Freeland o la Premier estone Kaja Kallas) sembrano funzionali solo al disegno di Washington – forse più del Pentagono che della Casa Bianca – di poter continuare a controllare agevolmente una Nato a bassa leadership. Un Patto così concepito ai primi test del 2023 è riuscito a imporre un proprio “comandante” a Praga, ma è stato virtualmente disconosciuto da Berlino.

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