Un recente editoriale di Fernando De Haro sull’Unione Europea si chiude con un riferimento alla richiesta che Sant’Agostino fece all’Impero Romano: pace e una ragionevole dose di sicurezza e benessere. Secondo De Haro, è quanto dovremmo chiedere anche all’Ue.

Non si può che essere d’accordo con Agostino, perché questa dovrebbe essere la richiesta di ogni popolo al proprio Governo. Il punto è che l’Ue non è uno Stato, non ha un Governo centrale e non ha neppure un popolo, né tantomeno una lingua comune, come il latino per l’Impero Romano. L’inglese, anche dopo l’uscita del Regno Unito con la Brexit, è rimasto sostanzialmente la lingua di traffico all’interno dell’Unione, come in buona parte del mondo, peraltro. L’Ue di per sé ha ben 24 lingue ufficiali, un po’ troppe per uno Stato e non semplici da gestire.



È anche difficile affermare che l’Ue abbia un governo: a Bruxelles opera una burocrazia, molto costosa, che applica in modo fiscale trattati discutibili e sempre più messi in discussione, come il Mes, il Patto di stabilità o il Trattato di Maastricht. Nonostante il Pesc (Politica estera e di sicurezza comune) con l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, attualmente lo spagnolo Josep Borrell, l’Ue ha un ruolo decisamente secondario nello scenario geopolitico, quasi sempre al traino di Washington.



Infatti, Borrel si è accodato al segretario della Nato, Jens Stoltenberg, nel caldeggiare l’uso delle armi inviate all’Ucraina anche in territorio russo: le possibili catastrofiche conseguenze di un simile atto sono facilmente immaginabili. Stoltenberg è in proroga da un paio di anni e il suo Paese, la Norvegia, non fa parte dell’Ue, ma sta ottenendo fortissimi profitti dalla vendita di petrolio e gas all’Unione, sostituendo in buona parte le cessate forniture russe. Questa dipendenza dalla Nato, cioè da Washington, rende ancor più improbabile la costituzione di una forza di difesa comune europea, ipotesi in discussione da decenni.



In assenza di una comune politica estera e di difesa, l’Ue si rifà con molteplici editti impositivi sui Paesi aderenti in termini di spese, deficit e debiti pubblici. Il tutto però in assenza di una politica fiscale comune, che permette l’esistenza al suo interno di diversi paradisi fiscali. Tali vengono considerati, per esempio, Olanda, Lussemburgo, Irlanda, cui possiamo aggiungere Cipro, rifugio per i capitali degli oligarchi russi. Tuttavia, l’Ue è riuscita a darsi una moneta propria, l’euro, ma sette Stati membri hanno mantenuto la propria moneta: Bulgaria, Cechia, Danimarca, Polonia, Romania, Svezia e Ungheria.

Quanto precede porta a considerare l’Unione Europea una sorta di sovrastruttura autoreferente. Vi è anche un Parlamento europeo, per cui si voterà nei prossimi giorni, con poteri piuttosto limitati e nel quale è difficile delineare strategie comuni ai numerosi partiti nazionali che ne fanno parte. La campagna attualmente in corso dimostra la rilevanza delle elezioni europee più per gli equilibri interni ai vari Paesi che per la elaborazione di una concreta politica europea.

Nello scenario descritto è difficile ipotizzare una soluzione non dico di Stato federale, ma neppure di confederazione tra Stati. O meglio, quest’ultima potrebbe essere fattibile, magari a “geometria variabile”, con la possibilità cioè di diversi livelli di integrazione, liberamente scelti, tra i vari Stati. Questa ipotesi però comporterebbe la pratica eliminazione, sia pure per fasi, dell’attuale struttura dell’Unione. Sarebbe interessante vedere l’interesse per questa ipotesi dei vari popoli, data per scontata l’opposizione degli attuali vertici di Bruxelles e dei poteri che li sostengono.

Nella situazione attuale le decisioni vengono prese in gran parte all’unanimità, dando lo stesso peso decisionale a ogni Paese. Cosa di per sé giusta, che non tiene però conto delle enormi diversità che intercorrono tra i 27 membri dell’Ue. Al di là della questione di principio dell’uguaglianza tra Stati, pone qualche problema che il voto di Malta, 542.000 abitanti, abbia lo stesso peso di quello della Germania, più di 84 milioni di abitanti. D’altra parte, la popolazione dei primi cinque Paesi, Germania, Francia, Italia, Spagna, Polonia, ammonta a quasi due terzi della popolazione dell’intera Unione.

La divaricazione non è minore se si considera il Pil per Paese. I dati per il 2023 vedono 4.120 miliardi di euro per la Germania, seguita dalla Francia con 2.800 e dall’Italia con 2.090, mentre all’altro lato della classifica si trovano la Romania con 320 miliardi, preceduta dalla Danimarca con 370. Se prendiamo in considerazione il tenore di vita, che l’Ue descrive in termini di Spa (Standard di potere d’acquisto) troviamo in testa il Lussemburgo, con valore 261, seguito dall’Irlanda con 234. Per la Germania il valore è 107 e per l’Italia 96, rispettivamente all’ottavo e al dodicesimo posto, mentre in fondo alla classifica si trova la Bulgaria con 59, vale a dire un quarto del Lussemburgo.

Una situazione quella descritta che rende astratto considerare l’Ue come concretamente unita e coesa, né ha senso pensare di risolvere la questione con definizioni ideologiche o pindariche dell’Europa. Tanto più dopo aver rifiutato l’unico possibile fattore di coesione che è riconoscere le comuni fondamenta  cristiane.

Mi dispiace per l’amico Fernando, ma oggi Agostino non saprebbe a chi rivolgere la sua accorata richiesta. Di certo non a Bruxelles.

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