Caro direttore,
Giorgia Meloni aveva tre anni e mezzo il 2 agosto 1980. E già da un trentennio il suo predecessore alla guida della destra italiana – Gianfranco Fini per Alleanza nazionale – si è formalmente congedato dalla continuità neo-fascista. Questi non erano di per sé buoni motivi per disertare – in veste di premier – le manifestazioni organizzate a Bologna per il 43esimo anniversario della strage alla stazione. È vero che Meloni era attesa al varco da molti: che avrebbero voluto contestare la premier italiana del 2023 in quanto “correa morale”, “mandante a posteriori” dell’assassinio di 80 cittadini inermi. Avrebbero voluto fischiarla al grido di “fascista”. Avrebbero voluto “ricacciarla” sulle note dell’eterno mantra resistenziale Bella ciao.
La premier ha accettato il rischio di non andare a Bologna (la città della leader del Pd, Elly Schlein) e – come prima conseguenza – il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha deciso di inviare un messaggio per ribadire la “matrice neofascista” dell’attentato. Un passo insindacabile per un Capo dello Stato e certamente non contestabile nella sostanza storico-politica. Non indiscutibile, tuttavia, nella dimensione della memoria: lungo la quale i fatti collettivi del passato più o meno prossimo rivivono continuamente nel presente di un Paese.
Gli esecutori della strage di Bologna accertati da inchieste durate decenni erano tutti certamente “neofascisti”. Militavano in organizzazioni estremiste di una destra allora rappresentata in Parlamento da un partito dichiarato erede del fascismo. Così come alcuni capi delle Brigate rosse avevano conosciuto la Resistenza dalla viva voce di familiari (ricevendola quasi come eredità etico-politica), l’“opposto estremismo” nero germinò nella nostalgia avvelenata e revanscista del fascismo. Nell’eversione gli uni cercavano, sullo sfondo della prima Guerra fredda, una “rivoluzione tradita”; gli altri la reazione/restaurazione. Entrambe le suggestioni, durante gli anni di piombo, si sono rivelate storicamente irrealizzabili: purtroppo in modo tragico sul cadavere di Aldo Moro (e di altri 85 omicidi rivendicati dalle Br) come delle decine di vittime di Piazza Fontana, Piazza della Loggia, Italicus, Bologna e rapido 904.
Se 45 anni dopo il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro non sono stati accertati neppure gli esecutori, nel 2020 la Procura di Bologna ha indicato quattro mandanti per la strage di quarant’anni prima. Uno è Licio Gelli, capo della Loggia P2, con il suo principale sodale, Umberto Ortolani. Ambedue sicuramente esponenti di un pezzo d’Italia che avrebbe applaudito – quando non avesse lavorato – a una svolta autoritaria che non fu solo una chimera (nell’estate 1960 e in quella 1964 e nel dicembre 1970). A loro i magistrati bolognesi hanno affiancato il giornalista Mario Tedeschi: direttore della rivista Il Borghese, forse l’unico neofascista “doc” del quartetto dei “mandanti”. In cui – per la prima volta – è risultato però incluso Umberto Federico D’Amato, personaggio della storia repubblicana il cui peso è stato inversamente proporzionale alle notizie che di lui si hanno tuttora (la prima biografia è stata pubblicata solo nel 2021).
A quasi trent’anni dalla morte, D’Amato resta probabilmente il poliziotto più potente che abbia mai operato nell’Italia democratica. Lo è stato per mezzo secolo fino al giorno della morte: una specie di “Hoover italiano”, come il leggendario fondatore dell’Fbi. Spia e contro-spia di Stato, suo difensore ad un tempo ferreo e controverso, giovane funzionario della polizia fascista, nella Roma del 1943 D’Amato diventa subito ufficiale di fiducia dell’intelligence americana: in particolare di James Angleton, poi capo del controspionaggio dell’intera Cia negli anni 50 e 60.
Il supporto (decisivo) alla vittoria della Dc contro il “fronte popolare” alle prime elezioni politiche italiane nel 1948 è il trampolino di Angleton, ma anche del suo miglior allievo italiano. È così che D’Amato fonda e gestisce quasi da plenipotenziario per un ventennio l’Ufficio affari riservati: nei fatti il “servizio segreto” del ministero degli Interni costantemente retto da ministri Dc (il partito di Mattarella, anche se in quegli anni il Viminale non è mai presidiato da esponenti della “sinistra” democristiana).
Dalla sua personale stanza dei bottoni agli Interni, D’Amato stringe legami importanti con la destra neofascista: la manovra nell’ambito della costante azione “atlantica” di contenimento della pressione del Patto di Varsavia, in un Paese che ospitava il più importante partito comunista occidentale. Ma proprio per questo l’etichetta di “neofascista” sembra banale e riduttiva per una figura su cui il Deep State americano puntò anche per il primo coordinamento degli apparati di sicurezza interna dei grandi Paesi dell’Europa in cantiere.
Nell’Italia dei misteri, Eugenio Scalfari è scomparso l’anno scorso senza mai scioglierne uno di non poco conto: se sia stato D’Amato la “gola profonda” del clamoroso scoop dell’Espresso, a metà anni 60, riguardo il presunto tentativo di golpe che avrebbe avuto al centro il Sifar (allora l’agenzia di intelligence militare). Di sicuro D’Amato è stato in seguito a lungo – prima e dopo la strage di Bologna – il titolare di una ricercata rubrica enogastronomica sul settimanale della sinistra nazionale, fondato da Scalfari.
Sull’Italia “post-fascista” (che ha appena compiuto 80 anni) non sappiamo ancora tutto: forse anzi sappiamo ancora poco. Certamente non è “post-fascista” solo la premier in carica: lo è stato – senza dubbio fino alla strage di Bologna – l’intero Paese. Per questo ha ragione Mattarella a sollecitare la memoria – cioè la totale trasparenza storica e giudiziaria e la piena coscienza civile e politica – delle grandi svolte (spesso le più dolorose) nella storia del Paese. Proprio per questo alla strage di Bologna serve molto più di un Bella ciao partisan.
Chissà se l’anno prossimo Meloni – se sarà ancora in carica a Palazzo Chigi – correrà il rischio di andare a Bologna il 2 agosto.
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