La Ue post-Brexit – divisa su tutto o quasi – si è spaccata ieri anche sulla linea da tenere verso il piano Trump per la pace in Medio Oriente. Al Consiglio dei ministri degli Esteri – svoltosi a Bruxelles – fonti ufficiose preannunciavano una presa di posizione formale sulla proposta presentata il 22 gennaio scorso a Washington dal presidente Usa al premier uscente di Israele, Bibi Netanyahu, e al generale Benny Gantz, suo sfidante al voto anticipato del prossimo 2 marzo.



Fin da domenica ll tam tam dei media di Gerusalemme riferiva della spinta di un gruppo di Paesi – guidati dal Lussemburgo – intenzionati a un passo deciso: il riconoscimento dello Stato della Palestina da parte della Ue, come segnale ufficiale di bocciatura del piano che assegnerebbe ai palestinesi il 70 per cento circa dei Territori contesi da oltre 50 anni. Fra i Paesi pro-Palestina – e quindi anti-Trump e anti-Netanyahu – venivano citati Francia, Spagna, Belgio, Portogallo, Slovenia, Malta, Irlanda, Svezia e Finlandia.



Al termine del vertice di Bruxelles, tuttavia, Josep Borrell, “Mr Pesc”, ha confermato solo uno scambio di idee sulla questione: senza veri passi avanti rispetto a una prima reazione di cautela preoccupata da parte della Commissione. “Abbiamo preferito attendere le elezioni israeliane”, è stata la motivazione diplomatica del nuovo “ministro degli Esteri” spagnolo dell’Unione. Dal summit sono tuttavia filtrati con evidenza forti disaccordi fra i 27 Paesi membri. Se è nota la posizione pro-piano (pro-Israele) di alcuni paesi dell’Est Europa come l’Ungheria, non si sono avute indicazioni sulle linee espresse da Germania e Italia (era presente il ministro Luigi Di Maio).



La questione israelo-palestinese scuote e divide da sempre l’Europa e le sue sue istituzioni. Non più tardi dello scorso novembre, la Corte di Giustizia Ue ha stabilito che i prodotti provenienti dagli insediamenti dei coloni israeliani nei Territori devono essere etichettati. Un provvedimento duramente contestato dal governo di Gerusalemme, per il quale l’antisionismo è sinonimo stretto di antisemitismo (la posizione è stata espressa anche dalla presidente dell’Unione delle comunità ebraiche in Italia, Noemi Di Segni, in occasione della recente Giornata della Memoria).

Lo scorso autunno, d’altronde, l’amministrazione Trump ha dichiarato formalmente “non illegali” gli insediamenti israeliani e a metà dicembre un decreto della Casa Bianca ha introdotto misure di contrasto all’antisemitismo in America mirate anzitutto a stroncare ogni forma di boicottaggio commerciale e finanziario alle imprese israeliane. È un intervento normativo cui guarda dall’Italia la Lega, sotto lo sguardo attento della diplomazia israeliana.

In Italia, nel frattempo, continuano a non aversi notizie di sviluppi della cosiddetta “commissione Segre” istituita lo scorso dicembre con compiti conoscitivi sui diversi fenomeni di “linguaggio d’odio”, in cui la senatrice a vita ha inscritto l’antisemitismo. Una prospettiva specifica, quella della senatrice reduce da Auschwitz, che ha preso fra l’altro la parola durante il voto di fiducia al governo Conte 2, denunciando sentori neo–nazisti nei linguaggi politici di talune forze politiche italiane ispirate dal sovranismo a sfondo religioso.