Caro direttore,
lunedì – nelle ore più concitate della verifica di maggioranza – non è passata inosservata una dura presa di posizione di Dario Franceschini. Il capodelegazione del Pd nell’esecutivo Conte ne ha dichiarato l’assoluta “non negoziabilità” al Corriere della Sera, che giustamente vi ha riservato spazio in prima pagina. In campo a proteggere con determinazione il premier sotto attacco da Italia viva non è uscito dunque Luigi Di Maio – leader governativo di M5s e designatore di Conte – e neppure il segretario del Pd, Nicola Zingaretti (ex Ds). È invece venuto allo scoperto uno dei capi della componente ex Margherita del Pd: per la quale sembra tuttora politicamente più efficace utilizzare il nome originario di “sinistra Dc”. Tanto tranchant è stato comunque Franceschini che perfino il Quirinale (di cui è nota la vicinanza al ministro dei Beni culturali) ha ritenuto opportuno a far filtrare una discreta presa di distanze.
Sono passati pochi giorni e lo spettro della crisi di governo si è un po’ allontanato, ma è ancora la “sinistra Dc” a rivendicare il suo ruolo da protagonista: per di più schierando Romano Prodi, suo vero “leader emerito”. Con un’amplissima intervista – ancora sul Corriere della Sera – l’ex premier è sembrato nei fatti trarre in tempo reale tutte le conseguenze politiche della verifica: trattando anzitutto Matteo Renzi da giovane apprendista. Eppure erano stati proprio i due ex premier Pd – nell’estate 2019 – a tessere il ribaltone, promuovendo il Conte 2 e l’espulsione della Lega dalla maggioranza.
Il ruolo di Renzi – allora ancora all’interno del Pd – era stato prevalente in Italia; quello di Prodi a favore del governo “Orsola” si era invece giocato soprattutto in Europa, in misura forse più decisiva nel garantire l’anomalia giallorossa e l’incerta premiership di Conte presso l’eurocrazia, le cancellerie europee, i vertici Ppe e Pse.
Da allora, però, il Covid ha enormemente dilatato e sconvolto tempi e spazi della politica. E Renzi aveva rotto con il Pd già prima della pandemia: aprendo dal centro dello schieramento politico una competizione che fatalmente è andata a premere sulla “sinistra Dc” molto più che sulla “sinistra ex Ds” e su M5s. Su questo versante – scontate le tensioni interne al Movimento – le frizioni fra grillini governativi, Leu e ala sinistra del Pd appaiono in fondo fisiologiche, anzi: è qui che è già aperto il vero cantiere di una coalizione elettorale che potrebbe in prospettiva assomigliare non poco all’Ulivo vincente nel 1996 o all’Unione vittoriosa nel 2006. Ma già in occasione delle importanti comunali del 2021 (Roma, Napoli e Torino) il Pd e l’ala governativa di M5s potrebbero testare con Leu alleanze strutturali in vista del voto politico 2023. Un centrosinistra classico, antitetico al “partito della Nazione” centrista che invece Renzi persegue da sempre: anzitutto da quando ha governato mille giorni con l’appoggio di una pattuglia di senatori di Forza Italia. L’operazione politica fu autorizzata da Silvio Berlusconi anche dopo la rottura del “patto del Nazareno”: quando al Quirinale avrebbe dovuto approdare Giuliano Amato e invece fu eletto Sergio Mattarella, esponente storico della “sinistra Dc”. Appena due anni prima Prodi personalmente era stato impallinato dai franchi tiratori renziani alle presidenziali 2013.
Alla fine del 2020 l’81enne Prodi è di nuovo in campo: con occhio strategico e senza timori apparenti di peccare di realpolitik in un momento di eccezionale problematicità della storia del Paese. Quando perfino ampi settori della maggioranza di governo sembrano non dare più alcun credito a Conte e ai suoi ministri di fronte alle sfide del Covid e della ripresa, Prodi fa muro attorno a Palazzo Chigi.
Quando il nome di Mario Draghi è ormai sulla punta della penna dei maggiori commentatori per la guida di un esecutivo di unità nazionale e salute pubblica, Prodi difende il diritto di Pd e M5s di governare il Paese: con Conte e il suo “governo del Sud” a smistare i fondi Recovery; con il commissario Arcuri a gestire la campagna di vaccinazione ma anche Ilva; con Roberto Gualtieri al Mef a spingere la fusione fra UniCredit e Mps, e tener d’occhio Alitalia, Rai e prossime nomine pubbliche; con il ministro delle Infrastrutture De Micheli a stringere sulla rinazionalizzazione di Autostrade. Con i numeri elettorali del marzo 2018, lasciando all’opposizione il centrodestra. E puntando con decisione al completamento della legislatura nel 2023.
Il percorso sembra delineato: il governo Conte resiste fino a metà anno, quando il semestre bianco pone la maggioranza al riparo dal rischio di elezioni anticipate. A quel punto si potrà aprire – con tempi e rituali da prima repubblica – una “verifica” effettiva e complessiva: per l’elezione del nuovo presidente della Repubblica, ma non solo. Anzi. è in quel momento che la posizione di Conte potrà essere davvero messa in discussione: in vista di un esecutivo diverso, più politicamente profilato verso la scadenza elettorale naturale.
Draghi? Può attendere: sempre ammesso che il presidente emerito della Bce sia davvero interessato alla bonanza politica italiana e non invece a ruoli internazionali, come ad esempio il “ministero delle Finanze” di cui molto probabilmente la Ue dovrà dotarsi. La “sinistra Dc”, comunque, conferma nell’occasione la sua profonda allergia alle tecnocrazie, sempre tendenzialmente antipolitiche. La priorità è manovrare le leve di governo: anche se nel 2020 questo comporta pilotare da posizioni di minoranza relativa milioni di voti conquistati da M5s al Sud con la promessa del reddito di cittadinanza; e avallare il “piano Conte” sul Recovery Plan.
Il pattern di Prodi è del resto illuminante: non fu completamente a suo agio quando – all’inizio della stagione delle grandi privatizzazioni – ritornò alla presidenza dell’Iri, ritrovandosi a valle del premier tecnico Carlo Azeglio Ciampi. Lo fu molto di più quando, pochi anni dopo, a Palazzo Chigi approdò direttamente lui dopo una netta affermazione elettorale. A quel punto era Ciampi – ministro del Tesoro – a rispondere a lui. Mentre Draghi, direttore generale del Tesoro, rispondeva a Ciampi.