Posso sbagliare ovviamente, ma mi pare che l’impalcatura europea stia scricchiolando. Abbiamo adottato l’euro, è stato un fatto importante, ma poi ogni nazione ha fatto sostanzialmente i suoi interessi. Risultato: ci sono sistemi fiscali diversi, non esistono una politica energetica, una difesa, un welfare, una politica industriale comuni. L’Ue è un conglomerato di differenze che giorno dopo giorno diventano sempre più evidenti. Dopo il lockdown venne lanciato il Green New Deal: un successo mediatico, senza dubbio, ma adesso scopriamo che l’Unione non ha sostanzialmente le risorse per attuare le transizioni energetica e tecnologica.
Leggo sulla rivista Aspen che l’Unione europea è stata concepita come un’organizzazione costruita su dividendi della pace, che le hanno consentito di edificare un sistema di welfare unico al mondo. Oggi, in tempi di “warfare“, sostenere quel sistema e investire anche sull’economia di guerra (di questo si parla, per chi non avesse ancora capito…) non è più possibile perché la coperta è decisamente corta. “L’Unione europea è figlia dei tempi di ieri”, leggo nel periodico. “Va adattata ai tempi di oggi, che vedono una transizione del potere internazionale – fasi sempre rischiose e conflittuali nella storia – e una deglobalizzazione parziale, con il suo impatto sulle catene del valore”. In parallelo si deve fare i conti con le transizioni digitale e ambientale, le quali richiederebbero un modello di crescita e sviluppo di riferimento di cui purtroppo in Europa non si vede traccia.
Che il welfare sia in ribasso lo si vede chiaramente in Italia. Matteo Salvini, almeno per il momento, non parla più di abolire la Fornero. Le varie “quote” inventate sono talmente penalizzanti sul piano economico da convincere chiunque a starne alla larga. Le risorse destinate a settori strategici come la scuola, la digitalizzazione, la sicurezza idrogeologica, la sanità fanno francamente sorridere se si pensa alla portata degli interventi che sarebbero necessari per cambiare realmente lo stato delle cose dopo anni e anni di disinteresse.
Del Pnrr preferisco non parlare, soprattutto dopo aver letto l’articolo de Il Foglio da cui risulta che a diciotto mesi dalla scadenza prevista le procedure avviate e non completate sono il 60% e gli appalti avviati nel 2024 appena il 5%. Qualche risorsa va a chi mette al mondo un figlio: è qualcosa, ma non cambierà le sorti di un Paese in piena crisi demografica. Sfogliando alcuni documenti scopro una ricerca di Swg da cui risulta che nel nostro Paese il 30% delle donne dice che non metterebbe più al mondo un figlio. Per quali ragioni? I ricercatori non lo hanno chiesto, ma provo a sbilanciarmi. Che i motivi siano la mancanza di servizi? Il reddito basso? La discriminazione sul luogo di lavoro? Il non poter garantire un percorso di studio?
Fate voi. Però… però vorrei anche dire basta a chi continua a lamentarsi senza fare nulla per cambiare le cose. Sul tram sento parlare persone che a distanza di pochi secondi prima si vantano ad alta voce, come tanti Cetto Laqualunque, di evadere il fisco e poi si lamentano della sanità allo sfascio o della scuola pubblica che costringe gli alunni a portare da casa la carta igienica. Basta insomma a chi vive applicando a se stesso una doppia morale, in base alla quale “io posso fare ciò che voglio, ma gli altri devono rispettare le regole”. Quello in cui viviamo non è il migliore dei mondo possibili, ma partendo da noi stessi, dai nostri comportamenti, dal nostro spirito di sacrificio, possiamo tutti contribuire a cambiarlo. Per noi, per i nostri figli, ma anche per quelli del nostro prossimo.
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