Piazza Santi Apostoli, a Roma, ha una superficie di 4.250 metri quadrati. Secondo gli esperti (ma in verità anche secondo la logica) in un metro quadrato di spazio ci possono stare, stipate come…sardine – per dirla in termini attualissimi – al massimo cinque persone. Per un totale di 21.000 circa. E non era tutta-tutta piena, ieri, Piazza Santi Apostoli, durante la manifestazione unitaria dei sindacati confederali per incalzare il Governo verso la soluzione delle 160 crisi aziendali gravissime che affastellano i tavoli del ministero dello Sviluppo economico. Quando Sergio Cofferati, allora Segretario generale della Cgil, convocò il suo popolo al Circo Massimo di Roma per protestare contro il programma berlusconian-confindustriale di abolire l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori rendendo possibili i licenziamenti individuali, in quella piazza di 140.000 metri quadrati poteva starci, e ci stettero, 600.000 persone.



Gli organizzatori generosamente dissero di averne riunite 2,7 milioni, ed era una considerevole esagerazione: ma comprese le strade vicine e i curiosi sotto il milione quel giorno si arrivò davvero. Ventimila persone, un milione di persone. La forza di mobilitazione dei sindacati confederali è diminuita di 50 volte. Questa è una bruttissima notizia per la democrazia. E le sceneggiatine delle sardine, più simili a quell’insipida trovata di marketing da creme solari e triccaballacche che sono i flash-mob che non a manifestazioni di piazza, quei “mak-pi” senza bandiere e senza pensiero, marcano amaramente l’enorme differenza tra oggi e un tempo ancora vicino in cui la piazza era il precursore di scontri politici con i quali si pensava ancora di poter cambiare qualcosa.



Quando Cofferati nel marzo del 2002 si schierò contro il governo Berlusconi era ancora bruciante l’orrore per l’omicidio di Marco Biagi, l’economista del lavoro che le nuove Br avevano trucidato a Bologna travisando il suo desiderio di rendere compatibili i diritti dei lavoratori e la flessibilità reclamata dal mercato con l’asservimento agli interessi gelidi del capitale contro quelli del lavoro. Il Pds era all’opposizione e vi rimase per tutta la legislatura, anche dopo il trionfo della Cgil senza mai sfiorare il ribaltone, ma stava impostando una strategia politica vincente, che avrebbe condotto alla seconda vittoria del 2006 di Romano Prodi contro Berlusconi. Non fluiva ancora nelle vene della democrazia l’oppiaceo dei social network, quel bromuro del conflitto ideologico che amalgama ogni pensiero in un perenne rutto, dando enfasi solo all’odio e in fondo spappolando anch’esso in un borbottio privo di senso.



Maurizio Landini, da Segretario generale dei metalmeccanici Fiom, si era costruito un’immagine dura, da sindacalista d’altri tempi, soprattutto osando contrapporsi a Sergio Marchionne con il denunciare i contenuti in parte oggettivamente farlocchi del suo piano “Fabbrica Italia”, che oggi forse rimpiangiamo all’evidenza della vendita di Fiat ai francesi. Contrastare “Magic Sergio” non era facile, eppure Landini ci era riuscito, guadagnandosene, anche, se non la stima il rispetto. E dopo due segretariati deboli, come sono stati quelli dell’ideologo Guglielmo Epifani prima e della robusta ma incolore Susanna Camusso dopo, molti speravano che, assurgendo al massimo scranno sindacale, Landini, la Cgil e i confederali avrebbero potuto riprendersi.

Per ora così non è. Ed è davvero un peccato per la democrazia, perché senza corpi intermedi identificabili e strutturati il dibattito ormai asfittico delle Camere – nei fatti più che mai avocato sui social e nelle stanze segrete di partitini, movimenti, fondazioni politiche e addirittura società di consulenza esterne al gioco democratico – finisce con l’apparire addirittura ridicolo.

Ma che può fare Landini? È la sinistra sociale a essere un gorilla nella nebbia, anzi una scimmietta ammaestrata. Dedicatasi da troppi anni a difendere i diritti civili – dalle coppie di fatto ai lgbt, dalle canne libere all’eutanasia – ignorando quelli sociali che mai come in questi anni di neoindustrialismo ipertecnologico sono minacciati, la sinistra non riesce più a farsi votare dai salariati a basso reddito. Non sa più chi è. Ha rinunciato alla primogenitura della rappresentanza degli ultimi per il piatto di lenticchie di qualche governetto di coalizione. L’opposizione che oggi può fare – quando non decide di dissolversi nell’abbraccio mortale coi grillini – è un insieme fluttuante di sgangherati ribellismi snob privi di visione. E poi gli interlocutori: chi sono? Palazzo Chigi, ridotto dalla storia europea e dalle incapacità nazionali a essere poco più che una mera segreteria amministrativa dei funzionari della Commissione europea, avvitata al frenetico frusciare di una calcolatrice che mostra ogni giorno quanto si allontani l’obiettivo matematico che non piazza Santi Apostoli, ma la Grand Place di Bruxelles ha dettato?

La cessione di sovranità è nei fatti: dall’allocazione delle risorse economiche nazionali – la vecchia politica dei redditi – la materia del contendere rimasta a palazzo Chigi è la politica dei debiti. Non è colpa di Landini. “Fare i fatti”, invoca lui. Come no: fatterelli, però.

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