Caro direttore,
un primo ministro telefona al presidente della Repubblica per riferirgli di contrasti all’interno dell’esecutivo su un progetto di riforma: contrasti sensibili sul versante della maggioranza parlamentare che sostiene il governo. I media riferiscono che il presidente rassicura il premier, escludendo l’ipotesi di voto anticipato. Nella Repubblica semipresidenziale francese sarebbe un normale passaggio della democrazia costituzionale. Quello che invece è accaduto nelle ultime ore nella democrazia parlamentare italiana non è affatto normale. Lo sembra nel semipresidenzialismo di fatto in cui la Repubblica italiana continua a scivolare da quasi un decennio: nonostante tre anni fa gli italiani – convocati a una referendum istituzionale – abbiano mostrato di gradire poco o nulla la prospettiva di cambiare la Carta del 1948. 



In Italia il premier risponde al Parlamento: non al Quirinale. Viene incaricato dal Capo dello Stato dopo le consultazioni fra le forze politiche parlamentari e giura poi con i suoi ministri nelle sue mani. Ma la sua legittimità nell’esercizio del potere esecutivo deriva dalla fiducia ricevuta in Parlamento. E questa viene rinnovata ad ogni disegno di legge presentato per l’approvazione all’esclusivo potere legislativo del Parlamento (salvo le specifiche prerogative riservate dalla Costituzione al Capo dello Stato in sede di promulgazione delle leggi e alla Consulta in sede di verifica successiva di costituzionalità).



Di fronte a una qualsiasi momento di “crisi” nel suo governo, il premier non può telefonare al Capo dello Stato, informando in modo obliquo i media. Non può ostentare la “cattura” di un appoggio (politico) presunto e soprattutto non costituzionale. In Italia un presidente della Repubblica non può trasformare il suo ruolo di garanzia nel sostegno politico a un governo, in contrasto attivo a ogni ipotesi di alternanza. E un premier e un Capo della Stato, nella democrazia costituzionale italiana, non possono concordare riservatamente fra loro gli sbocchi di una crisi politica. Meno che mai se il premier non è un parlamentare. Quando un governo non è più nelle condizioni di guidare il Paese si dimette in Parlamento (lo ha fatto Giuseppe Conte in Senato in agosto). E la soluzione di una crisi politica prevede un iter costituzionale chiaro, nel quale il Quirinale gioca un ruolo importante, ma non decisivo. 



Un premier che non riesce a far uscire un progetto di riforma dal suo Consiglio dei ministri affronta sicuramente un’“emergenza” politica e personale: ma è sua e solo sua, non “del Paese”, tanto meno “di tenuta democratica”. Può darsi che invece l’“emergenza del Paese” sia causata da quel premier e dal suo governo.

Il premier britannico Theresa May ha tenuto in ostaggio per tre anni su Brexit il governo di Sua Maestà, la Camera dei Comuni, l’elettorato e l’intera Gran Bretagna. Alla fine è stato chiaro che il problema era la sua unfitness sia come leader politico (ha perso le elezioni anticipate da lei stessa chiamate) e come capo di governo (ha fallito nel raggiungere un accordo politicamente praticabile sia per la Ue che per il suo parlamento). È stata cacciata con ignominia. Il suo successore Boris Johnson ha risolto l’impasse raggiungendo rapidamente un nuova intesa con Bruxelles e chiamando immediatamente gli elettori inglesi a dargli fiducia con un voto anticipato. Ha stravinto.

Il presidente francese Emmanuel Macron – dopo due anni di proteste di piazza da parte di gilet jaunes e sindacati – ha ritirato il progetto di riforma previdenziale. Il suo stesso partito – maggioritario all’assemblea nazionale – stava dando primi segni di sfaldamento. L’Eliseo e il suo primo ministro Edouard Philippe sono dovuti ricorrere alle maniere forti – non senza qualche ragione – contro i casseurs che hanno messo a ferro e fuuco decine di sabati parigini. Ma Macron – che pure ha qualche fama di gaffeur – ma non si è mai sognato di lanciare verso i suoi oppositori la ridicola accusa di “maleducazione”. Né, soprattutto, ha mai chiamato i gilet jaunes a “rispondere ai francesi” della loro opposizione ai progetti di riforma da lui avanzati. L’unico che deve rispondere ai francesi è Macron stesso: è lui “al governo”, i francesi gli hanno assegnato la maggioranza al voto perché governi, rispondendone poi al voto.

La riforma della prescrizione non è un’“emergenza”. È un’ipotesi di cambiamento di una specifica normativa in vigore che il governo Conte deve decidere se è il momento di cambiare o no. Se non trova un accordo al suo interno, se non riesce a schierare in Parlamento su quel progetto di riforma i voti che ha ottenuto in occasione della fiducia è un problema suo: anche se il problema rischia di investire la sopravvivenza stessa del gabinetto. Un premier non può chiedere al Quirinale di risolvere un problema su cui poteri e responsabilità sono assegnati esclusivamente a lui. E il presidente della Repubblica italiana non può – e non deve – risolvere i problemi politici di un esecutivo. A meno, naturalmente, di cambiare l’architettura costituzionale. In caso contrario – e sembra per alcuni versi quello corrente in Italia – si viene a creare una situazione ibrida: il Capo dello Stato che “regna e governa” e il Capo del Governo che recita da parafulmine (ma alla fine respingendo la responsabilità ultima di dichiarare conclusa l’esperienza di governo grazia alla sponda del Quirinale).

Un premier non può neppure chiedere a un Paese di attendere: le emergenze del Paese – e ve ne sono, molte e più gravi della riforma della prescrizione (lo risottolinea oggi sul Messaggero Luca Ricolfi) – non possono essere posposte ai problemi politici e personali di un premier non eletto. E neppure ai problemi di un migliaio scarso di parlamentari eletti.