È un periodo d’oro per chi è esperto di statistica e vuole applicarsi all’interpretazione della realtà italiana. La campagna per il salario minimo è partita, si è detto, per rispondere al bisogno di tre milioni e mezzo di lavoratori che avrebbero migliorato la propria posizione salariale: dopo poco tempo, Inps ci ha informato che il risultato positivo avrebbe riguardato solo un decimo, forse meno, di quanto previsto dai proponenti del nuovo livello minimo salariale. Per anni si è parlato di milioni di giovani disoccupati dimenticando che la base di calcolo doveva prevedere la sottrazione di quanti erano impegnati in percorsi formativi e scolastici per cui restava un dato, sempre preoccupante, ma molto ridotto rispetto ai titoli allarmistici di una stampa che non verifica più, nemmeno col buon senso, la veridicità di alcuni dati che vengono strillati.



Per rimanere nella possibilità di avere dati estremi si ricorre a una categoria, i Neet, giovani che non studiano e non lavorano, che essendo una definizione in negativo non dice nulla su chi sono e cosa fanno. Il risultato è che i bandi per offrire percorsi lavorativi ai Neet, anche se propongono condizioni stratosferiche rispetto agli altri percorsi per chi cerca lavoro, non riescono a trovare adesioni. E quando le trovano coinvolgono giovani che vengono da lavoro irregolare, erano fuori dal mercato del lavoro per fragilità o per condanne oppure donne con impegni famigliari. Se non si indaga su chi sono in realtà i fantomatici Neet non si riuscirà a programmare interventi efficaci per portare questi giovani ad avere un ruolo attivo nella società e un lavoro che gli restituisca un dignitoso ruolo sociale.



Se si vogliono numeri che corrispondano realmente ai problemi che si desiderano affrontare e che siano una base solida per le politiche per il lavoro e contro il lavoro povero si deve partire da definizioni certe dei problemi che si vogliono misurare. Se la definizione di povertà riguarda i nuclei famigliari e non i singoli individui e la soglia è il 60% del valore mediano dei redditi (cioè del valore che indica che il 50% sta da una parte e l’altra metà dall’altra) diventa questo il termine per valutare gli interventi. Se si prende il numero dei singoli lavoratori che stanno sotto quel valore si indica che c’è un problema di bassi salari, ma non necessariamente quel numero indica le famiglie che vivono sotto la soglia di povertà.



Questa confusione di termini e di numeri è stata enfatizzata in tutto il dibattito, non ancora concluso, sull’introduzione del Reddito di cittadinanza e sui successivi cambiamenti. L’introduzione di un provvedimento che doveva sconfiggere la povertà ha aperto una fase nuova di strumenti che erano indispensabili per completare il nostro sistema di welfare. La modalità di attuazione e la confusa misurazione della platea della povertà ha portato a effetti indesiderati. Senza entrare nei bizantini meandri delle autodichiarazioni e delle misure Isee, si è visto come i contributi penalizzavano famiglie numerose e portatrici di più fragilità e premiavano coppie senza figli edin grado di poter partecipare al mercato del lavoro.

Gli interventi correttivi, come proposto da più parti, hanno in primo luogo separato chi ha problematiche di povertà che si sommano con problematiche di fragilità sociali o di salute da quanti sono in stato di basso reddito ma potrebbero uscire dalla situazione di povertà trovando una collocazione lavorativa. Non si tratta solo di contenere la spesa, ma di renderla più giusta ed efficace.

Per avere una reale efficacia sulla platea di quanti potrebbero migliorare la propria condizione attraverso il lavoro si è predisposta una piattaforma su cui le persone che hanno i requisiti richiesti possono registrarsi, direttamente o con il sostegno dei Caf, e ottenere indicazioni per percorsi formativi finalizzati a sostenere la loro ricerca di occupazione. Per la durata del periodo di impegno formativo e di ricerca del lavoro riceveranno un contributo economico di 350 euro. La piattaforma è attiva dall’inizio di settembre. La rete pubblica, i Centri per l’impiego, e privata, le Agenzie per il lavoro, forniscono indicazioni per le proposte dei corsi di formazione disponibili e dei posti di lavoro vacanti esistenti.

Contrariamente alle previsioni degli agitatori populisti non vi è stato l’assalto alla diligenza che si prefigurava. Non vi sono state tragedie fra chi ha visto mutare forma e valore del contributo economico dell’ex Reddito di cittadinanza e non vi sono state code per eccesso di afflusso alla piattaforma. Anzi, i numeri indicano che a quasi un mese dall’avvio delle registrazioni solo un terzo (60 mila circa sui 190 mila potenziali) di quanti ricevevano il Reddito di cittadinanza si è registrato per avviare un programma personalizzato di ricollocazione.

Anche questo dato ci rimanda all’incertezza dei numeri su cui basiamo le politiche pubbliche (e tralasciamo quelli su cui basano i titoli troppi giornali). Attualmente in Italia lavorano, risultano occupati, un po’ più di 23 milioni di persone. È un dato per il nostro Paese pressoché straordinario, anche se il tasso di occupazione resta più basso degli obiettivi che l’Europa si è data per parlare di piena occupazione. Sappiamo, però, sulla base di una pluralità di ricerche e di stime del reddito, che abbiamo dai tre ai cinque milioni di persone che lavorano in modo irregolare. Prendendo anche solo il dato minimo passeremmo a 26 milioni di lavoratori. Avremmo un 7% in più di tasso di occupazione arrivando a sfiorare l’obiettivo europeo.

Forse questo dato negativo di lavoro irregolare è quello che falsa molte delle statistiche quando si vogliono usare i numeri per politiche di intervento sul lavoro senza avere sensori territoriali forti. Negli ultimi anni la divaricazione di reddito nord e sud si è ampliata. Il lavoro irregolare è concentrato al sud e in alcune professioni dei servizi. I redditi medi da lavoro indicano che in alcune professioni si mischia lavoro irregolare a poche ore di lavoro regolare. Abbiamo ormai strumenti di indagine e di elaborazione dati che permetterebbero di andare a colpo sicuro per colpire sacche di sfruttamento del lavoro e di evasione contributiva.

Ecco che se vogliamo incidere con politiche contro il lavoro povero, e per restituire al lavoro la dignità che riteniamo fondamentale per un Paese più giusto, dobbiamo avviare una politica economica che rilanci il Mezzogiorno e insieme portare legalità e salari dignitosi per rimettere al centro la persona al lavoro.

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