Ieri mattina, nessun grande quotidiano italiano ha segnalato in prima pagina la notizia Istat sul riflesso negativo dell’occupazione nell’ultimo mese del 2019. Nell’Eurozona la disoccupazione è ai minimi dal 2008 (7,4% in media, con Germania e Olanda al 3,2%, cioè in virtuale piena occupazione come gli Usa). Il tasso dei senza lavoro in Italia resta invece inchiodato al 9,8% e dicembre ha cancellato 75mila posti di lavoro. L’Istat ha segnalato anche il record di lavoratori precari (3,1 milioni) e il minimo storico di lavoratori autonomi (5,2 milioni). Tutte notizie rimaste praticamente senza reazioni, meno che mai da parte del ministro del Welfare Nunzia Catalfo, evidentemente troppo impegnata nelle faide interne a M5s.



Ieri mattina, nessun sito di grande testata ha riportato in apertura o con effettiva evidenza la notizia Istat sul brusco calo del Pil italiano nel quarto trimestre: -0,3% su base annua, per uno score finale 2019 di virtuale stagnazione (+0,2%). In questo caso l’Italia si trova comunque in (non) buona compagnia: fra ottobre e dicembre anche la Francia ha visto cedere il suo Pil (-0,1%), mentre l’aggregato Ue ha mostrato un progresso minimo (+0,1%).



Di fronte a questo quadro, il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, ha colto l’occasione per accusare il Fmi (poco ottimista sul 2020 dell’Italia) di aver diffuso dati falsi sul deficit italiano. Anche a lui – come all’intera filiera dei suoi predecessori – il Fondo è tornato a chiedere “riforme strutturali”: anzitutto la cancellazione del reddito di cittadinanza e il ridimensionamento di “Quota 100”. Ma Gualtieri – europarlamentare Pd, ora candidato alle suppletive per la Camera a Roma – a differenza dei predecessori sta snobbando con insofferenza le raccomandazioni di Washington. Si sta invece buttando a capofitto in una “riforma dell’Iva e dell’Irpef”: dopo aver varato un “taglio del cuneo fiscale in busta paga” senza coperture salvo quelle immaginarie delle “lotta all’evasione”. Nei fatti, Gualtieri punta a ripristinare in versione potenziata il “bonus Renzi” che ha abbondantemente fallito la sua missione di stimolo alla ripresa via domanda di consumo delle famiglie. Intanto, il commissario Ue agli Affari economici, l’ex premier italiano Paolo Gentiloni, continua a non aver nulla da dire sul momento congiunturale nel suo Paese e sull’azione del governo Conte 2 in politica economica e finanziaria.



Sulla Stampa di ieri mattina, il leader della Fim-Cisl, Leonardo Bentivogli, si è lasciato andare a uno sfogo su come il governo (in particolare la componente M5s) ha gestito la crisi Whirlpool, abbandonando il sindacato a difendere 420 lavoratori al Sud. La multinazionale statunitense ha ufficializzato la volontà ultima di chiudere lo stabilimento di Napoli a fine ottobre. È stata una crisi industriale molto mediatica in altre stagioni, oggetto di polemiche sul ruolo dei grandi gruppi esteri in Italia – come ArcelorMittal – e (come per Ilva) oggetto di annunci di “crisi risolta” da parte di Luigi Di Maio, leader M5s e già superministro a Sviluppo e Welfare. Ma in questi giorni la componente “gialla” del governo (compresi il premier e i ministri per lo Sviluppo e il Welfare) sta affrontando un difficilissimo post-voto; mentre quella “rossa” lo sta celebrando come l’inizio di una radiosa “fase 2”.  E per l’ennesima e forse definitiva crisi Whirlpool sembra non esserci posto nell’agenda dell’esecutivo, né sui grandi media.

L’Italia è tornata un malato grave: ma non per il coronavirus su cui ieri i grandi media hanno riempito pagine cartacee e digitali. L’emergenza nazionale non è quella sanitaria dichiarata ieri con enfasi da Palazzo Chigi. Ma – come in Cina, forse tuttora – sulle emergenze vere è meglio far calare il silenzio. Fra Pechino e Wuhan il controllo sulla circolazione delle notizie è notoriamente autoritativo. In Italia la Costituzione garantisce invece la libertà di stampa, ma non la impone. Meglio rischiare l’accusa di negazionismo che quella di “linguaggio d’odio”. Meglio parlar d’altro: ad esempio di come la Gran Bretagna è riuscita alla fine a decidere per il proprio futuro, a essere “sovrana”. Meglio ignorare quanto rapido e pericoloso sia l’avvitamento dell’Azienda-Paese se questo può sollecitare un confronto politico serio, che chiami il governo in carica alle sue responsabilità. O –  nel caso in cui questo si dimostri unfit – che richiami gli italiani alle urne: come accade in tutte le democrazie degne di questo nome.  

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