Esattamente come i pronunciamenti di Financial Times ed Economist, anche quello giunto da Goldman Sachs sul futuro di Mario Draghi è tutt’altro che netto: si presta anzi a una pluralità di letture oblique, come hanno puntualmente confermato le prime reazioni in Italia. Fin dal titolo (“Should I stay or should I go”, titolo di una canzone dei Clash) la nota è fortemente interrogativa: e a nulla vale l’apparente osservazione-chiave del testo sul rischio che il premier italiano si dimetta dopo l’elezione del nuovo presidente della Repubblica.



Il passaggio è stato prevalentemente interpretato come una raccomandazione-auspicio a che Draghi resti a Palazzo Chigi. In realtà – anche nel testo Goldman – è molto più una constatazione sul ruolo-chiave dell’ex presidente della Bce alla guida dell’Italia nella Ue “qui e ora”: argomento già ampiamente tritato dal dibattito politico-mediatico interno, in termini ancora lontani dall’essere risolti. Ma soprattutto: neppure il report economico della Goldman affronta in modo compiuto l’ipotesi di “dimissioni” di Draghi.



L’abbandono del premier viene per lo più evocato, in Italia, in termini politico-istituzionali problematici legati alla sua possibile elezione al Quirinale (prospettiva certamente sgradita a partiti e leader assortiti, anche se le posizioni cambiano di giorno in giorno). Ma non sembra avere minor credibilità uno scenario opposto: con Draghi che – non eletto al Quirinale – abbandona la leadership di un esecutivo non più gestibile in cornice di “unità nazionale”. Prospettiva che diverrebbe più realistica se alla presidenza della Repubblica non fosse rieletto Sergio Mattarella (in chiave di “ponte” verso la scadenza elettorale del 2023) ma una figura diversa e più pesante, come potrebbe essere ad esempio Giuliano Amato.



Che l’Italia non possa permettersi le “dimissioni” di Draghi è pacifico anche senza la sottolineatura di Goldman Sachs: ma la sua “non elezione” al Quirinale non sarebbe affatto garanzia della sua permanenza a Palazzo Chigi. E il warning di Goldman su un Draghi che gettasse la spugna e sbattesse la porta non sembra affatto suggerire la sua “blindatura” a premier.

Al netto del contenuto, il report è parso comunque un po’ elementare rispetto agli standard dell’alta politica e dell’alta finanza planetaria. Porta la sigla di quella che resta la più prestigiosa e forse potente banca d’affari del pianeta, di cui il premier italiano è stato vice-chairman e managing director, ruolo che secondo i teorici delle “spectre” internazionali si conserva a vita. E poi uno degli estensori della nota – l’economista Roberto Taddei – è noto in Italia come militante nella sinistra Pd, poi avvicinatosi all’ex premier Matteo Renzi come responsabile economico del partito. Taddei opera da sempre alla John Hopkins University di Bologna: storico think tank, osservatorio e polo di lobbying dell’establishment dem statunitense in Italia, nella città-crocevia del solido Pd ex sinistra Dc (Romano Prodi stesso è stato international advisor di Goldman) e di quello altrettanto solido ex Pci (quello della “Ditta”, di Unipol e dell’Opa Telecom teleguidata da Wall Street).

Davvero Draghi ha mosso la “sua” Goldman sedici giorni prima del primo voto a Camere riunite per il Quirinale? Può aver dato davvero il suo assenso, magari tacito, al lancio di un segnale con l’impronta del Pd, di quello prodiano come di quello renziano? Il premier italiano avrebbe davvero ritenuto opportuno rispolverare il suo curriculum di banchiere globale? E Renzi ne avrebbe approfittato per esibire la sua divisa odierna di “power broker” internazionale?

Non può essere esclusa nemmeno una sorta di opzione-zero: che il report sia stato preparato per routine, come ennesimo endorsement di prammatica da parte della finanza globale di mercato al suo esponente forse più illustre oggi in campo. La nota è poi detonata oltre misura in Italia nell’ultimo weekend festivo: che, chissà, forse neppure il premier immaginava fosse così bollente.

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