A due settimane dalla rielezione di Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica, retroscena e ricostruzioni si rincorrono. Una voce (poco consistente come tutte le altre) sussurra che Mattarella abbia chiesto a Draghi un consiglio – un via libera – finale prima di accettare il quasi-plebiscito di due sabati fa. L’indiscrezione opposta riferisce di un premier furente, pronto alle dimissioni di fronte a quello che giudicherebbe uno inaccettabile schiaffo da parte delle forze politiche che pure continuano a garantire la maggioranza al suo esecutivo. Con Draghi i fatti come sempre soccorrono.
La conferenza stampa di venerdì è stata contrassegnata da due annunci da parte del premier. Il primo ha portato la conferma (definitiva) che a Draghi non interessa un futuro politico: meno che mai come leader di quel “Nuovo Centro” che Luca Ricolfi ha identificato su Repubblica come il nuovo “Ghino di Tacco”, in grado di legittimare indifferentemente al Governo il centrodestra come il centrosinistra, dopo un voto politico 2023 in probabile cornice proporzionale. Draghi, in ogni caso, esclude di seguire le orme di Mario Monti, che nel 2013 trasformò il suo ruolo di premier tecnico (e senatore a vita) in leadership politica di una nuova formazione centrista (Scelta Civica): peraltro perdente al setaccio elettorale.
“Un nuovo lavoro me lo troverò da me”, ha detto con toni molto secchi un premier certamente non dell’umore più brillante dopo l’esito delle presidenziali. Non c’è dubbio che Draghi avrebbe accolto con soddisfazione una sua elezione al Quirinale: e gli va dato merito di aver segnalato con “fairness” la sua disponibilità alla vigilia delle sessioni a Camere riunite, tutte poi all’insegna di una totale mancanza di trasparenza e di un esasperato tatticismo politicista. Non c’è dubbio, parimenti, che le forze politiche abbiano usato la riconferma di Mattarella – in una “narrazione” di emergenza-Paese – come unico “bazooka” efficace contro una candidatura tecnico-istituzionale che presentava solo punti forti e nessuna debolezza. Salvo quella di mettere tutte le dita su tutte le piaghe di una classe politica in avvitamento, apparentemente senza freni.
È ipocrita chi si stupisce del “cattivo umore” di Draghi. Così come chi trasecola all’idea che il premier possa riconsegnare le chiavi di palazzo Chigi al Parlamento e quindi a Mattarella: lasciandole dunque alla “politica” gelosa di riprendere in mano il volante di un sistema-Paese il cui spread è già salito a 160. Con il Pnrr ancora neppure sulla carta. Fra venti di guerra e inflazione energetica, ecc. Draghi – certamente a differenza del predecessore Giuseppe Conte 1 e 2, ma anche dei tre premier Pd della scorsa legislatura e perfino a differenza di Monti – non ha bisogno di essere premier italiano per essere qualcuno, per essere se stesso. Anzi: la presidenza del Consiglio italiana può perfino rappresentare un fastidio per un leader istituzionale di levatura internazionale. Il quale, anzitutto, può ricevere ogni giorno altre “offerte di lavoro” più attraenti (la prima resta quella di primo “ministro delle Finanze” dell’Ue, poltronissima di prossima creazione nell’organigramma europeo).
Non è quindi parsa sorprendente la durezza tecnocratica del pemier contro il “superbonus 110”: bollato come emblema dello sconsiderato approccio di politica economica “giallorossoverde”. E il secondo annuncio di Draghi non è sembrato affatto scollegato dal primo. Chi si illude di tenere convenientemente al guinzaglio il premier istituzionale fino al voto 2023 rischia di sbagliarsi; l'”incidente di percorso” lo può creare più e meglio Draghi di qualche fazione parlamentare. E rischia ugualmente di rivelarsi effimera la scommessa sulla rielezione di Mattarella come antidoto alle elezioni anticipate: come garanzia di una lunga, “confortevole” campagna elettorale, mentre Draghi – bocciato al Quirinale – lavora di malavoglia a palazzo Chigi non avendo niente di meglio da fare.
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