È curioso come ogni megafono anti-premierato in Italia resti afono di fronte al caso Macron. Tacciono i politici e i giuristi da mesi impegnati al di qua delle Alpi nella difesa strenua della “Costituzione più bella del mondo” contro i rischi (presunti) di “svolta autoritaria” nella riforma promossa dal centrodestra al governo.



Eppure la crisi francese – eccezionale laboratorio politico-istituzionale a cielo aperto – sta scrivendo un intero instant book contro i sistemi democratici troppo accentrati, non sufficientemente dotati di quei checks and balances che sono il retaggio storico delle liberaldemocrazie anglosassoni, non della Révolution dell’Ottantanove.



Dunque: domenica 9 giugno, giorno di voto europeo, la Francia è un Paese stabile. Ha un presidente in carica da due anni e per altri tre. Emmanuel Macron, come detta la Costituzione “semipresidenzialista”, presiede il governo, guidato da sei mesi da Gabriel Attal. Il premier (espresso da Renaissance, lo stesso partito del presidente) è stato insediato appena sei mesi fa, con un rimpasto a tavolino deciso dall’Eliseo. L’esecutivo gode di una maggioranza parlamentare, anche se non netta: il voto legislativo seguito alle presidenziali del 2022 non ha regalato a Macron il controllo pieno dell’Assemblea Nazionale.



A pochi minuti dai primi exit polls sull’euro-voto – che segnano una pesante sconfitta della formazione presidenziale –, Macron decreta lo scioglimento dell’Assemblea. È una decisione presa con esercizio ultra-pieno dei poteri presidenziali, non confrontata o condivisa con nessun altro soggetto istituzionale, né prima né dopo. La Costituzione della Quinta Repubblica, e del generale de Gaulle, glielo consente.

Il presidente – in tv, non davanti al Consiglio dei ministri o all’Assemblea (entrambi tenuti all’oscuro) – motiva il suo passo con una non meglio definita necessità di “chiarimento” politico all’interno del Paese. Eppure l’esito del voto non ha avuto né promette di avere alcun impatto diretto sugli assetti politico-istituzionali francesi. Tanto che, immediatamente a valle del voto, Macron continua ad esercitare senza remore i suoi poteri di rappresentante della Francia presso la Ue, nella scelta cruciale di confermare Ursula von der Leyen alla guida della Commissione.

Comunque: Macron decide di sciogliere il parlamento prescindendo da ogni verifica della fiducia parlamentare verso il governo. Così facendo sigla un chiaro atto di sfiducia personale/presidenziale – il secondo in due anni, la prima è stata Elisabeth Borne – verso il “suo” premier. In concreto: l’espressione di sovranità popolare rappresentata dal parlamento viene azzerata a favore di quella insita nella presidenza a suffragio popolare. Un’interpretazione parecchio spinta del “semipresidenzialismo”, peraltro unico nella sua fisionomia nell’intero Occidente democratico.

A Parigi è quindi il presidente “da solo al comando” che decide “l’interesse del Paese”: anche se in gioco c’è la stabilità del Paese stesso (a cominciare da quella finanziaria). E – soprattutto – anche se tale “interesse generale” sembra confondersi pericolosamente con gli interessi individuali del presidente. Fin dalla sera del 9 giugno Macron è dunque sotto gli occhi di tutti come caso di macro-conflitto d’interesse: un giocatore sconfitto dalla democrazia elettorale che abusa dei suoi poteri, venendo meno al suo ruolo di garante ultimo dello Stato. Ma non è finita.

È a cavallo del doppio turno elettorale interno che il presidente si ritrova nei panni di arbitro di parte: che promuove attivamente (ma non alla luce del sole) un uso strumentale del meccanismi elettorali per favorire se stesso, al fine di ribaltare un esito elettorale che rischiava di indebolire il suo potere. Ed è un dettaglio curioso che tre settimane dopo il voto europeo, il primo turno di quello legislativo (proporzionale come l’euro-voto) abbia invece confermato in pieno la fiducia dell’elettorato francese per la principale forza d’opposizione e nuovamente bocciato Macron, con la sua formazione relegata ancora al terzo posto. Di fronte a un “chiarimento” molto meno grave – un referendum sulle autonomie locali nel 1969 – De Gaulle si dimise. Ed era l’uomo che aveva ricostruito la Francia democratica dopo l’occupazione nazista; l’uomo che aveva posto termine all’ultima guerra coloniale in Algeria.

Domenica sera – un mese dopo il voto europeo – la Francia si è ritrovata intanto un Paese completamente instabile. La nuova Assemblea Nazionale è “impiccata”: non vi emerge una maggioranza netta e la formazione del governo appare problematica. Il presidente, stavolta, tace (questa settimana ha fra l’altro in programma il vertice Nato a Washington). Lunedì mattina, con gesto quasi di burocrate infastidito al ritorno da un weekend lungo, ha resuscitato e prorogato al potere il governo Attal, che lui stesso aveva sepolto un istante dopo che il suo fallimento era stato decretato dagli elettori francesi.

Ora la sua strategia appare chiara (in parte è perfino filtrata sui media): attendere che l’Assemblea che lui ha sciolto d’imperio e ricomposto diversamente grazie agli accordi di desistenza, si dimostri impotente a garantire la governabilità del Paese. Ma non sarà così grave: resterà lui come presidente “semipresidenziale” per tre anni. Resterà il suo governo Attal, “per l’ordinaria amministrazione, fino a che non ce ne sarà un altro” eccetera. E se per ora rimarrà nel cassetto la riforma delle pensioni che la Ue sollecita alla Francia sotto infrazione per debito alto, la responsabilità non sarà sua, ma di un parlamento conflittuale e inconcludente. E se le piazze ribolliranno di gilet gialli o bandiere rosse inferocite per l’inflazione e tutto il resto, sarà un buon motivo perché l’Eliseo intervenga a stroncare “le minacce eversive”: perché quel terzo di francesi che ha votato Rassemblement National e quell’altro terzo che ha votato la sinistra capitanata da Jean-Luc Mélenchon sono solo “nemici della democrazia, populisti, neo-fascisti, amici di Putin, antisemiti” eccetera.

L’unica attenuante – per i silenziosi costituzionalisti anti-premierato in Italia – è che i colleghi francesi non si stanno comportando meglio. Ma forse non è un caso che Macron e il presidente della Repubblica italiano poco più di due anni fa abbiano firmato al Quirinale un Trattato di amicizia. Il “semipresidenzialismo di fatto” – ormai tale da un quindicennio in Italia ma ora parecchio anche in Francia – resta “la Costituzione più bella del mondo”.

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