Joe Biden e Mario Draghi si conoscono bene e hanno parecchio in comune, oltre all’età: anche se il primo è il presidente eletto della più grande democrazia del pianeta e il secondo è un tecnocrate paracadutato per la prima volta in vita sua nel ruolo di primo ministro di un Paese del G7. Sono uomini di Stato profondamente “occidentali”, secondo un lessico politico oggi messo al bando dal politically correct globalista.
Più “liberal” l’americano Biden, più “liberale” l’europeo Draghi: entrambi cittadini di quel “centro” politico – fatto soprattutto di prassi di governo – che nel dopoguerra “atlantico”, “occidentale”, ha costruito e maturato la democrazia di mercato e le sue strutture istituzionali.
Quasi nelle stesse ore entrambi hanno parlato del loro futuro. Biden ha preannunciato la sua ricandidatura per la Casa Bianca “se avrò la salute”. Draghi ha confermato di sentirsi “al servizio delle istituzioni”, anche se ponendo una serie di condizioni proprie alle forze politiche italiane: sia nel caso di suo passaggio al Quirinale, sia nel caso di permanenza a Palazzo Chigi. Ancora una volta il gioco delle analogie e delle differenza non sembra banale.
Biden è fin dapprincipio un presidente tutt’altro che forte: senza il Covid è più che probabile che Donald Trump sarebbe stato rieletto, grazie al buon ritmo dell’economia e a oggettivi risultati geopolitici. Avrebbe bissato il successo del 2016 su Hillary Clinton: esponente solo apparentemente forte di quell’establishment “occidentale” radicato negli Usa sull’asse fra Washington e Wall Street (assai meno nella Silicon Valley) ed esteso all’Unione Europea (via Nato, ma non solo) e al Giappone. Biden è stato il protagonista di una “restaurazione” molto faticosa dell'”ordine occidentale”: una “normalizzazione” che, un anno dopo, appare ancora in alto mare. Il “bidenismo” riformista non ha ancora ottenuto un solo successo al Congresso (talora più per le divisioni interne ai “dem” che per l’opposizione repubblicana); la nuova fase pandemica morde non meno di quando i suoi effetti erano giudicati colpe esemplari del trumpismo; i rapporti con Cina e Russia sono peggiorati; le campagne-bandiera sul clima e sul contrasto alle diseguaglianze segnano il passo. E il Covid appare sempre meno una scusante, anzi: il “modello occidentale” può essere alla sua prova definitiva (e il conflitto sociopolitico vax/no-vax nè è forse il banco di prova esemplare). E su questo sfondo che la ricandidatura molto precoce di Biden – dopo il discusso “summit fra le democrazie” – suona ad un tempo un messaggio nervoso ma anche come un atto di coraggio all’inizio della campagna elettorale di midterm 2022.
Draghi – figura suprema di potere tecnocratico supplente della politica debole – soffre in parte degli stessi problemi di Biden: anche se la sua “minoritarietà”, la sua non-legittimazione è strutturale, connaturata al suo ruolo di premier di salute pubblica, sostenuto da larghissime intese in un Parlamento debole. Sembrano d’altronde giocare a suo favore almeno due differenze rispetto alla situazione statunitense.
La prima è la prova oggettiva di efficienza nel governare un Paese in grave crisi: e le gestione dell’emergenza sanitaria (oggi additata come esemplare) si è accoppiata con l’impostazione di un’exit strategy economica nata forte perché proposta da Draghi in sede europea e accreditata sui mercati finanziari. A differenza di Biden – politico relativamente incolore – l’attuale premier italiano è stato il presidente della Bce che ha salvato l’euro nel 2012. E’ un super-tecnocrate europeo ma estraneo al “carrozzone” di Bruxelles. E oggi siede da premier di un Paese-membro a capo di un tavolo decisionale europeo al momento orfano di Angela Merkel e in fondo anche di Emmanuel Macron, che tra cento giorni affronta il voto per la rielezione all’Eliseo.
Draghi difende non diversamente da Biden tutti i modi di essere di un Occidente sotto attacco su vari fronti: non ultimo quello interno (dove non è facile distinguere le pressione dei populismi sovranisti da quelle degli estremismi politically correct). Però la posizione anomala di Draghi – forte ma defilata rispetto al quartier generale europeo; forte perché indispensabile nel suo Paese – sembra rendere la sua candidatura non meno coraggiosa ma più ambiziosa e promettente di quella di Biden. Anzitutto perché Draghi si è ben guardato dal dire a cosa si sente in concreto candidato. Sono stati i politici italiani a strillare impauriti di fronte a quello che nei fatti è sembrato un aut-aut: se non trovassi più le condizioni per essere “al servizio delle istituzioni (italiane)” – è parso dire Draghi, non rimarrò a Roma un istante di più. Me ne andrò in Europa: se ci saranno le condizioni. Per provare a costruire un’entità sovrannazionale nuova e più resistente di quella che al di là dell’Atlantico sta mostrando tutti i suoi quasi 250 anni.