Caro direttore,
com’era prevedibile, la decisione del Senato di istituire una Commissione parlamentare straordinaria “per il contrasto ai fenomeni dell’intolleranza, del razzismo, dell’antisemitismo e dell’istigazione all’odio e alla violenza” non cessa di suscitare polemiche: soprattutto dopo la scelta dei senatori di centrodestra di astenersi. 



Prima firmataria della proposta è stata la senatrice a vita Liliana Segre, 89enne reduce da Auschwitz. Riflettere su quello che è già il “caso Segre”  è compito estremamente arduo, forse addirittura rischioso (cosa che peraltro non dovrebbe mai darsi in una democrazia matura e solida).

Ma la senatrice Segre – giustamente insignita del laticlavio a vita dal presidente Mattarella per il suo impegno di testimonianza dell’Olocausto – non ha eluso quella che ha ritenuto essere una sua precisa responsabilità civile. Sarebbe quindi da meno un giornalismo cui mancasse l’impegno di osservare in profondità anche questo passaggio di vita pubblica italiana a fine 2019. E la cronaca – come sempre – basta a se stessa: naturalmente nel porre domande, mai nell’imporre risposte.



Nel “caso Segre” è possibile individuare due momenti d’origine distinti, entrambi recenti. Il più vicino risale a sabato 26 ottobre quando – alla vigilia del voto in Umbria – Repubblica ha riferito con molto risalto che la senatrice è destinataria quotidiana di oltre 200 messaggi hate: “insulti, maldicenze, attacchi politici e religiosi”. 

Due giorni prima – sempre su Repubblica e sempre a dimensione di pagina intera e con richiamo in prima – era comparso un ritratto al vetriolo di Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, in campo nella contesa elettorale umbra.



Il giorno successivo la parlamentare ha annunciato querela per diffamazione, scrivendo fra l’altro al direttore del quotidiano: “Dedicate tempo e spazio a combattere quello che chiamate ‘fake news’ e ‘parole d’odio’, soprattutto contro le donne, ma evidentemente questo non vale quando si tratta di attaccare chi ha la grave colpa di fare politica a destra”. 

La senatrice Segre aveva d’altronde già trovato spazio nelle cronache il 10 settembre scorso, quando il Senato ha votato la fiducia al governo Conte 2. Durante il dibattito, Segre ha preso la parola annunciando il suo voto favorevole al nuovo esecutivo. Lo ha fatto con parole che tutti gli osservatori hanno registrato come apertamente critiche verso la Lega, in via di estromissione dal governo con il “ribaltone” promosso da M5s, Pd e Leu. Una citazione del motto nazista “Gott mit Uns” (“Dio è con noi”) è apparsa a tutti direttamente riferita al vicepremier uscente Matteo Salvini (tre settimane prima lo stesso Salvini era stato oggetto – nell’aula di Palazzo Madama, dove siede come eletto legittimo – di un violento attacco politico e personale da parte di Giuseppe Conte: suo premier fino a quel momento e mai eletto in Parlamento). 

Assieme a Segre, ha votato la fiducia al Conte 2 anche l’ex premier Mario Monti. È un evento infrequente – anche se non del tutto inedito nella vita parlamentare italiana – che due senatori a vita (figure dotate per definizione di autorevolezza morale non divisiva) intervengano in modo così esposto in un passaggio eminentemente politico come la fiducia a un nuovo governo. 

Proprio Monti – peraltro – è stato protagonista recente di una svolta emblematica nella democrazia materiale del Paese. Nell’autunno 2011, infatti, l’economista della Bocconi è stato chiamato dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a guidare un governo tecnico-istituzionale durante la crisi del debito pubblico nazionale. Monti – legittimato appositamente con il titolo di senatore a vita – è stato il primo di una serie recente di premier non eletti (dopo di lui Matteo Renzi e quindi Giuseppe Conte per due volte consecutive). Ma, soprattutto, è stato il primo senatore a vita che, a fine mandato come premier tecnico, si è trasformato in leader politico: dando vita all’iniziativa di Scelta Civica. 

Il progetto politico montiano è stato nettamente bocciato al primo test elettorale, nel 2013. Al di là dei contenuti propositivi, gli italiani hanno mostrato di gradire poco il trasformismo istituzionale di Monti: una figura chiamata a un compito “di salute pubblica” – e per questo insignita del laticlavio assegnato come premio ai grandi italiani “super partes” al servizio del loro Paese – aveva deciso di utilizzare quella situazione per entrare nell’arena politica, facendosi “parte” contro altre “parti”. All’economista e tecnocrate di riconosciuto prestigio internazionale il Parlamento aveva tributato nel 2011 una fiducia quasi plebiscitaria. Al neo-player politico nazionale, il corpo elettorale assegnò 18 mesi dopo non più del 10%. 

L’Italia repubblicana è ancora relativamente giovane e anche la sua democrazia è – come altre – sempre più liquida. Ma gli elettori italiani hanno dato anche di recente prove importanti di padroneggiarne a fondo principi e meccanismi costituzionali. Il 40% della vittoria andato al premier Renzi alle europee del 2014 si è trasformato nel 40% di una pesante sconfitta in occasione del referendum del 2016. Il premier, in Italia, non deve occuparsi di riformare le istituzioni: quello è, nel caso, compito delle forze politiche in Parlamento. I ruoli, nell’architettura costituzionale, contano. 

Commentando l’esito del voto in Umbria – caratterizzato da un’affermazione epocale del centrodestra guidato da Lega e FdI – lo storico Ernesto Galli della Loggia ha comunque chiosato sul Corriere della Sera: “…c’è un sintomo ulteriore e quanto mai significativo dell’esaurimento della Prima Repubblica. Si tratta della fine conclamata del paradigma antifascista. Cioè di quell’asse portante del primo cinquantennio repubblicano e oltre che implicava l’interdetto pubblico (efficace, eccome, anche sul piano elettorale) nei confronti di chiunque venisse bollato come ‘fascista’. Una scomunica che ha funzionato ancora abbastanza bene contro Berlusconi e i suoi, ma che oggi contro Salvini e Meloni – per giunta in una regione di tradizioni politiche ‘rosse’ – si è dimostrata del tutto sterile”.