Giovanni Agnelli, fondatore della Fiat e trisnonno di John Elkann, prendeva il vagone letto ogni metà settimana a Torino per trascorrere almeno un giorno a Roma: un “oblige” per il primo industriale italiano, nonché senatore del Regno. Suo figlio Edoardo, morto appena quarantenne, condivideva il ruolo di star del jet set di allora con il principe ereditario Umberto di Savoia. Per Gianni Agnelli – lui pure senatore a vita – la residenza romana, di fronte al Quirinale, aveva pari dignità e centralità di Villa Frescot, sulla collina torinese: o dell’appartamento newyorkese di Park Avenue.



Nei saloni di palazzo Mengarini-Carandini – nel punto più alto di Roma – fra innumerevoli frequentazioni dell’Avvocato è passata anche Audrey Hepburn, la protagonista di “Vacanze Romane”: un brand della “dolce vita” che forse Gianni Agnelli ha incarnato più di molti principi decaduti della nobiltà capitolina. Nel palazzo aveva casa anche Susanna Agnelli: la sorella più vicina all’Avvocato, con una storica passione per la politica (fra l’altro senatrice per il Pri e ministro degli Esteri nel governo Dini). Non meno mondana del fratello, trovò il modo di coltivare una relazione anche con il governatore della Banca d’Italia Guido Carli. Molto meno attratto dalla capitale fu invece il fratello minore Umberto Agnelli: che tuttavia non poté sottrarsi a una “call of duty” a Palazzo Madama, come senatore per la Dc a metà anni ’70. Una delle molte esperienze sfortunate del cadetto di casa Agnelli. Non da ultimo: Alain Elkann – padre di “Jaki” – è un parigino d’origine divenuto italiano d’adozione molto più a Roma che a Torino.



Lungo il “secolo degli Agnelli” – di fatto una famiglia regnante senza corona fra Regno sabaudo e Repubblica – i riti romani si sono consolidati numerosi. Il più mediatico è sempre stato la rigorosa presentazione al Quirinale di ogni nuovo modello Fiat che veniva sfornato dal Lingotto o da Mirafiori. Ma anche la copertura offerta dell’agenzia “ufficiale” dei diversi tempi (la Stefani prima, l’Ansa poi) è sempre stata la medesima di quella prestata alle alte cariche dello Stato.

Quando l’altro giorno il capo regnante della famiglia Agnelli – oggi presidente e maggior azionista di Exor e Stellantis – ha condotto una sorta di visita istituzionale a Roma, vi sono pochi dubbi che abbia inteso rinfrescare una liturgia del potere scolpita nelle pietre della Città eterna, anche se ultimamente un po’ impolverata. Nessun altro personaggio italiano sarebbe stato comunque in grado di riunire in un’unica agenda giornaliera incontri con il presidente della Repubblica, il ministro dell’Economia, il governatore della Banca d’Italia, il comandante dell’Arma dei Carabinieri e – non certo ultimo – dall’ambasciatore Usa a Roma. Tutti gli antenati di “Jaki”, del resto, hanno sempre avuto accesso libero ed esclusivo a tutti quei palazzi. E l’Ansa ha puntualmente “appreso” dell’accaduto (peraltro “previsto da tempo”), rilanciandolo nell’universo mediatico: compreso tutto ciò che Elkann ha ritenuto di dire agli interlocutori: e cioè che il gruppo Stellantis è intenzionato a sviluppare “tutti i progetti messi sul tavolo del Ministero delle Imprese e del Made in Italy” (meta peraltro esclusa dal tour romano del presidente Stellantis).



Non tutto, però, sembra essere tornato nell’ennesima replica di una “geometrica dimostrazione di potenza”. Il cuore del potere italiano non è oggi al Quirinale così come non lo era negli anni ’30 del secolo scorso. È a palazzo Venezia che il capo del governo, Benito Mussolini, chiese al senatore Agnelli di progettare un’auto popolare che costasse non più di 5mila lire dell’epoca. E non è facile immaginare che l’Avvocato in persona bussasse al ministero dell’Industria o quello del Lavoro (e tanto meno il comando dei carabinieri) nelle tempestose settimane del 1980, fra la “marcia dei 40mila” e l’occupazione di Mirafiori, semmai il presidente di Confindustria dell’epoca telefonava all’alba al premier Francesco Cossiga, a palazzo Chigi. Né Gianni Agnelli avrebbe compiuto un giro delle chiese romane quando il Premier (oggi Giorgia Meloni) fosse stato fuori Italia in visita di Stato e avesse appena polemizzato, da migliaia di chilometri, con l’amministratore delegato del gruppo (il francese Carlos Tavares) molto sbrigativo nel sollecitare sussidi pubblici allo Stato italiano di dubbia ricaduta in Italia- Per di più agitando la pistola di chiusure e licenziamenti (e sparando subito i primi colpi di cassa integrazione) e seminando le agenzie internazionali di voci su ipotesi di fusione fra Stellantis e Renault.

Quanto alla Banca d’Italia, essa certamente manteneva ruolo pieno nella vigilanza bancaria quando (governatore Antonio Fazio) avallò il nel 2002 il “prestito convertendo” da parte delle maggiori banche nazionali, per salvare la Fiat da una virtuale bancarotta, salvaguardando la posizione proprietaria della famiglia Agnelli. Il neo-governatore Fabio Panetta resta oggi uno dei primi banchieri centrali europei (ha fatto parte sia del consiglio di supervisione bancaria, sia del comitato esecutivo della Bce): ma il suo potere di indirizzo a favore di una multinazionale dell’auto sono limitati. E – verosimilmente – via Nazionale non considera neppure responsabilità sua intervenire “ad aziendam” (più francese che italiana) a favore di quella che nel secolo scorso è stata la Fiat.

Last but not the least, l’America resta la patria d’elezione per gli Agnelli (nonché quella anagrafica per Elkann); ma Stellantis è oggi un “carmaker” europeo, anzi francese: non necessariamente un soggetto giudicato “amico”, Oltreatlantico, nella turbolenta ricomposizione degli scacchieri produttivi e degli scenari commerciali globali.

P.S.: Nel secolo scorso l’Avvocato raramente rinunciava ad affacciarsi nella sede romana della Stampa, per avere e spesso per portare indiscrezioni e valutazioni di prima mano. Ieri non risulta che il nipote abbia fatto visita alla sede centrale di Repubblica, che pure oggi è di sua proprietà assieme allo storico quotidiano di famiglia.

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