Il Covid con i lockdown in Cina e poi le crescenti tensioni internazionali stanno dando una spinta decisiva alla ridefinizione delle catene di fornitura globale. Il fenomeno è talmente evidente che pochi giorni fa è stato l’amministratore delegato di DHL, in un’intervista a CNBC, a raccontare i primi effetti. Per molti anni la Cina è stata la manifattura di buona parte delle economie sviluppate, ma il modello è andato in crisi prima a causa dei lockdown decisi per combattere il Covid e oggi perché le tensioni geopolitiche rischiano di portare a sanzioni. Settimana scorsa Reuters pubblicava un rumour secondo cui gli Stati Uniti stavano valutando un pacchetto di sanzioni contro la Cina come deterrente a una possibile invasione di Taiwan; in questo scenario l’Europa si sarebbe immediatamente trovata sotto la pressione di Taipei per unirsi all’iniziativa americana.



Un numero crescente di imprese si sta spostando in Paesi meno “problematici” o spesso sul suolo americano. Le importazioni di beni in America dalla Cina sono calate negli ultimi mesi. Non è un effetto della diminuzione del potere d’acquisto americano, che è appena iniziato, ma di uno spostamento degli impianti che ha alcuni vincitori. Gli Stati Uniti sono sicuramente uno dei soggetti vincenti. Secondo “Reshoring Initiative”, nel 2022 un numero record di posti di lavoro, 350mila, è rientrato negli Stati Uniti. L’ad di DHL vede già alcuni vincenti: il Vietnam su tutti e poi India e Filippine.



La ristrutturazione delle catene di fornitura globale, la rilocazione degli impianti produttivi è un processo enorme che avverrà negli anni e che cambierà profondamente i rapporti economici. Avviene ed è visibile perché le aziende si sono convinte che i processi iniziati con il Covid e che continuano oggi con le tensioni internazionali sono irreversibili e peggioreranno. Se non ci fosse questa convinzione nessuno si imbarcherebbe in un cambiamento che è molto costoso e molto complicato. Chi riesce a incrociare questo processo ha la possibilità di far crescere la propria economia facendo rientrare posti di lavoro stabili e pagati dignitosamente.



L’Europa e il suo cuore manifatturiero, Germania e Italia, sono fuori da questo processo perché i costi energetici sono insostenibili e, anzi, da noi avviene il contrario: le aziende chiudono per non riaprire più. Questa capacità viene rimpiazzata da chi riesce a offrire costi energetici bassi e stabilità legale e fiscale.

L’impresa italiana e tedesca tendenzialmente esporta sui mercati internazionali molto più che sui mercati domestici; queste esportazioni verranno rimpiazzate da altri. L’India e in generale tutta l’Asia negli ultimi mesi hanno incassato i dividendi del cambiamento dei flussi di petrolio e gas russi spostati dall’Europa. Gli Stati Uniti hanno avuto un incremento dei prezzi del gas che è una frazione di quello europeo. Il prezzo del gas in Europa oggi è dieci volte più alto che nel 2020, dopo essere stato per lunghe settimane anche 20 volte più alto; il prezzo del gas negli Stati Uniti, invece, è circa 2,5 volte più caro che nel 2020 e, al massimo della crisi, è stato solo 3 volte più alto.

Le catene di fornitura si ristrutturano e il perdente numero uno è l’Europa; la Cina ha dalla sua un enorme mercato interno. I vincitori stanno già emergendo. Assistere a una chiusura di industrie senza precedenti vuol dire mettere le basi per un impoverimento sostanziale che i mercati già guardano con preoccupazione. Tutto si dovrebbe fare per salvare la manifattura italiana, ma il treno delle chiusure è già partito e siamo in ritardo di almeno tre mesi.

Il prossimo Governo, qualunque sia, dovrà raccogliere la montagna di cocci partorita dall’inazione di queste settimane. Non vale la magra consolazione del “mal comune mezzo gaudio” perché il nostro male è la fortuna di altri.

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