In una domenica di metà maggio passeggiando sull’affollato lungolago di Arona sul Lago Maggiore si notava solo una cosa diversa dagli anni passati. Il lago era lo stesso, così come la maestosa Rocca di Angera sull’altra sponda e le barche a vela in lenta navigazione. Ma sui dehors di bar e ristoranti, oltre ai menu e alle offerte speciali, erano frequenti i cartelli con una grande scritta: cercasi personale.



Il turismo sta riprendendo bene. Non mancano le targhe svizzere e tedesche. Dopo due anni con il freno tirato per la pandemia si percepisce una grande voglia di ripresa, magari anche di svago e serenità. 

E allora come mai in un’Italia che ha uno più alti tassi di disoccupazione e in cui la percentuale di giovani che non studiano e non lavorano è una delle più alte d’Europa, ristoranti e alberghi faticano a trovare personale? Come mai?



Perché si è progressivamente creato un sistema in cui per vivere è forse ancora utile, ma non certo indispensabile, lavorare. Perché tra sussidi, bonus, redditi di cittadinanza, pensioni anticipate e assegni più o meno unici si è creata una rete di provvidenze assistenziali senza limiti e senza controlli. 

Un’analisi puntuale (e allarmante) dei mille sussidi di cui possono godere gli italiani la si trova nelle pagine del libro di Alberto Brambilla: “Il consenso a tutti i costi. Quando la politica promette, il cittadino dove sempre chiedersi: chi paga?” (Ed. Guerini e associati, pagg. 300, €18,50). Brambilla, ora presidente del Centro studi e ricerche Itinerari previdenziali, è tra i maggiori esperti del sistema previdenziale e assistenziale. E anche un fustigatore che non la manda a dire sulle derive di una politica tutta tesa a cercare il consenso, costi quel che costi. “Il nostro Paese – scrive Brambilla . primeggia per debito pubblico ed evasione fiscale mentre è agli ultimi posti per redditi di lavoro e tasso di disoccupazione; è ai primissimi posti per spesa sociale ma nel contempo detiene il record della povertà assoluta e relativa: insomma una fabbrica di poveri nel paese dei mille sussidi”.



Quella della spesa facile è una malattia che viene da lontano. Tanto che si può tranquillamente riscrivere il primo articolo della Costituzione: “L’Italia è una Repubblica fondata sul debito pubblico”. Si è iniziato negli anni ’80 a utilizzare il sistema pensionistico a fini elettorali (ricordate le baby pensioni?) per arrivare all’assurdità attuale del superbonus 110% (che non esiste in nessun Paese al mondo, chissà perché?) che consente ai ricchi e possidenti di farsi pagare completamente dallo Stato l’efficientamento energetico delle loro ville al mare, dato che non esistono limiti di reddito per i beneficiari.

Ma il problema di fondo è quello di uno Stato che elargisce e che non riesce a controllare, che anche quando pone dei limiti di reddito ai sussidi non riesce a fare i conti con un’evasione fiscale quanto mai diffusa. L’esempio del Reddito di cittadinanza è significativo per la grande quantità di abusi che peraltro appaiono solo come la punta di un iceberg delle irregolarità. E questo – scrive Brambilla – per “la mancanza di strumenti di controllo, banche dati e un’amministrazione che funzioni abbinata alla furbizia e alla fantasia degli italiani”.

L’analisi di Brambilla non brilla per ottimismo, ma è un esempio di disarmante realismo. Mettendo in luce con chiarezza i tre impedimenti che bloccano la crescita e una vera giustizia sociale: 1) la grande instabilità politica che fa vivere il Paese in una campagna elettorale permanente; 2) la sempre complicata macchina burocratica; 3) le troppe leggi, regolamenti, ordinamenti comunali, provinciali, regioni e statali. Anche perché gli ultimi mesi, tra inflazione, pandemia e guerra, hanno posto le premesse per rendere sempre più difficile trovare una via d’uscita razionale a queste difficoltà.

E infatti si sente risuonare sempre più spesso la richiesta di uno “scostamento di bilancio”, una perifrasi che nasconde senza troppa eleganza una maggiore spesa e un maggiore debito. Quello di cui l’Italia non ha certo bisogno.

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