Il numero di ettari che verranno destinati alla coltivazione di soia negli Stati Uniti quest’anno sarà superiore del 4,4% rispetto al 2021 che a sua volta era superiore del 4,6% rispetto al 2020. Non è andata altrettanto bene né al mais, né al grano. Nel primo caso gli ettari destinati alla coltivazione nel 2022 saranno addirittura in calo del 4%, mentre il grano salirà solo dell’1,5%. Il responsabile dell’associazione degli esportatori di soia statunitense ha dichiarato che l’incremento della produzione di soia è “dovuto dalla maggiore domanda per diesel rinnovabile”.



Si osserva una competizione tra grano, mais e soia nella destinazione degli ettari coltivabili; i coltivatori americani dopo anni di prezzi depressi e in alcuni casi indebitati scelgono quello che paga meglio e coltivano soia con cui si producono biocarburanti incentivati oltretutto dagli Stati. In alcuni casi i produttori di diesel sono obbligati a miscelare con combustibile “green”; una scelta premiata molto spesso dai rating “ESG”.



Per capire quello che sta accadendo facciamo entrare in scena un altro settore apparentemente estraneo ma in realtà contiguo. La componente base del poliuretano con cui si fanno, tra gli altri, materassi, cuscini, sedili delle macchine e tappeti viene tradizionalmente prodotta con derivati degli idrocarburi. Nelle ultime settimane, a causa dell’esplosione dei prezzi degli idrocarburi, la componente base di origine “bio”, derivata dalla soia, è diventata più conveniente di quella tradizionale. Le tensioni geopolitiche e dieci anni di sottoinvestimenti in gas e petrolio, prima per una questione di prezzi e poi per i vincoli normativi della “transizione energetica”, hanno talmente alzato i prezzi che un concorrente storicamente fuorigioco, la soia, oggi è più conveniente. 



La competizione tra prodotti agricoli per uso alimentare e prodotti agricoli come sostituti di gas e petrolio non è destinata a diminuire ma a peggiorare perché “l’Occidente” è ancora impegnato al massimo a portare a termine la transizione energetica. Meno si investe in fonti tradizionali più salgono i prezzi, maggiore diventa la convenienza a destinare terreni e raccolto per la produzione di beni che normalmente sarebbero stati fatti con gli idrocarburi.

Tutto questo sarebbe discutibile normalmente se non fossimo in una situazione in cui veniamo costantemente avvertiti di un’imminente crisi alimentare. È una crisi che settimana scorsa è stata prospettata dal Governatore della banca d’Inghilterra, più recentemente dalle Nazioni Unite e in questi giorni da diversi partecipanti al World economic forum di Davos: il vice-presidente della Commissione europea, Schinas, e il ministro delle Finanze saudita tra gli altri. L’Europa pare particolarmente preoccupata di un’ondata migratoria, in conseguenza alla crisi alimentare, che rischia di essere “peggiore” di quelle viste finora. 

L’invasione della Russia in Ucraina e le tensioni geopolitiche, incluse le sanzioni, che ha causato hanno fatto male ai mercati alimentari. Ci si aspetterebbe che il resto del mondo fosse impegnato in uno sforzo per ridurre o annullarne l’impatto. L’importante invece è l’utopia “green” che deve continuare anche quando ruba ettari coltivabili a grano o mais. Non si può fare una rivoluzione senza rompere qualche testa o, per attualizzare il messaggio, senza far saltare qualche pasto.