Il governatore del Veneto Luca Zaia – forse l’unico vincitore certo della “guerra del Covid” – è candidato a una riconferma plebiscitaria il prossimo 20/21 settembre. Nello stesso giorno anche gli elettori veneti saranno chiamati a esprimersi sul quesito referendario nazionale sul taglio dei parlamentari. Tre anni fa lo stesso elettorato veneto partecipò con un’affluenza del 57% al referendum regionale indetto da Zaia per legittimare la richiesta di autonomia differenziata per il Veneto. Il “progetto Zaia” ebbe l’assenso del 98% dei votanti: più di quanti si erano espressi per il governatore alle regionali 2015 (50,08% al primo turno) e più del 41% totalizzato allora da “Lista Zaia” e Lega Nord-Liga Veneta.



Nell’ottobre 2017 si tenne un referendum gemello in Lombardia, indetto dall’allora governatore leghista Roberto Maroni. Il risultato puntuale della consultazione fu analogo – i “sì” superarono il 96% – ma l’affluenza fu molto più bassa (38%, meno dello score personale di Maroni nel 2013 e anche di quello di Attilio Fontana nel marzo 2018). I progetti di autonomia presentati  da Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna (senza referendum consultivo) sono nel frattempo rimasti lettera morta presso i governi Conte-1 e 2. Per questo non manca chi assegna al referendum costituzionale 2020 – voluto dalla coalizione Pd-M5S a trazione romano-meridionale – un rischio elevato di andare a sbattere “a prescindere” contro il referendum consultivo veneto del 2017: indipendentemente dal merito del quesito. La scommessa dei promotori del referendum – obbligare a votare anche chi non vorrebbe in un election-day unico – potrebbe rivelarsi azzardata: nell’esito della consultazione e – lateralmente, in termini politici altrettanto significativi – nel voto regionale. 



La giornata elettorale di settembre vedrà in campo anche Italia Viva di Matteo Renzi. La scissione dal Pd – di cui il senatore fiorentino è stato segretario-premier per tre anni – è figlia del più recente dei referendum costituzionali: quello del dicembre 2016. Nell’estate di quattro anni fa, Renzi iniziava la full immersion personale in una campagna di appoggio all’impegnativa “riforma Boschi”. Quest’ultima si muoveva su un terreno non diverso da quello poi prescelto da M5S: la ristrutturazione del Parlamento. È curioso come solo ora i partner della coalizione giallorossa – soprattutto il Pd –  diano segni di memoria inquieta: un’alta affluenza inflisse allora ai referendari una sconfitta dura e cocente, che costrinse Renzi alle dimissioni immediate dopo tre anni di “pieni poteri” sia nel Pd che a palazzo Chigi. L’onda lunga del referendum era ancora alta politiche del 2018: quando il Pd vide dimezzati i voti raccolti alle europee di quattro anni prima. E dai livelli di due anni fa (il 20% circa) il partito oggi guidato da Nicola Zingaretti, non si è più risollevato.



Le ragioni della grave frattura maturata nel 2016 fra il Pd e una larga parte dell’elettorato sono note: sebbene non siano mai state riconosciute ed elaborate da Renzi, ma neppure dagli altri leader di un partito che dal 2006 presidia saldamente il Quirinale.

La prima e più importante fu che gli italiani punirono un Premier-Segretario che per mesi cessò di occuparsi dei problemi reali e urgenti del Paese (la cronica stagnazione economica e occupazionale dal 2011 in poi) per promuovere una riforma dello Stato astratta e cervellotica, sospettata di essere stata studiata anzitutto nell’interesse del Pd. Non mancò neppure chi parlò di debito di Renzi verso il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che aveva pilotato prima la svolta tecnocratica del 2011 e poi l’ascesa del sindaco di Firenze nel 2014. E una riforma in direzione riduttiva del parlamentarismo italiano era una storica “raccomandazione” di centri di potere sovrannazionale come il Fmi.

La seconda ragione del crash 2016 – non meno importante, soprattutto alla luce del contesto corrente – fu per l’appunto che agli italiani non piacque affatto che la Costituzione del 1948 venisse cambiata alla leggera. Per la precisione: a) non piacque che si riducesse il ruolo del Parlamento nell’architettura della democrazia costituzionale; b) non piacque che a decidere il cambiamento fosse il capo del Governo e non il Parlamento stesso; in particolare, un Premier non eletto.

Nel settembre 2020 le questioni referendarie sostanziali ricompaiono intatte. Il Paese è al centro di una crisi socio-economica drammatica, senza precedenti, ma in questo frangente i leader dei partiti (anzitutto quelli della maggioranza giallorossa) appaiono assorbiti dalla stesura di una nuova legge elettorale, dando per scontato il sì degli italiani all’ennesimo referendum istituzionale. A palazzo Chigi c’è Giuseppe Conte: Premier non eletto di un governo apparentemente paralizzato; protagonista di una traiettoria anomala di accentramento dei poteri esecutivi nell’emarginazione del Parlamento, con l’apparente tolleranza del Quirinale in nome della stabilità.

Qualcuno andrà certamente a sbattere anche contro il referendum 2020. Sarà ancora il leader del Pd? E/o il premier? E/o quel M5S che – in campagna elettorale – aveva confermato di voler “aprire il Parlamento con l’apriscatole”, salvo poi ritrovarsi in Parlamento con 225 deputati e 111 senatori?