Prospettive fosche per il settore dell’automotive in Europa. A dare voce alle preoccupazioni delle aziende è stato il neo Presidente dell’Associazione delle case automobilistiche (Acea) Luca De Meo, che paventa un drastico ridimensionamento della produzione e degli addetti nel prossimo decennio, per l’impatto della decisione adottata dalle Istituzioni dell’Ue di sopprimere entro il 2035 la produzione dei veicoli con motori termici per sostituirla con vetture elettriche con zero emissioni. Una scelta che comporta un aumento esponenziale dei costi degli investimenti e dei prezzi finali delle autovetture con un effetto di spiazzamento delle aziende che producono in Europa rispetto a quelle operano in Usa e Cina e in altre parti dell’ Asia.
L’andamento delle nuove immatricolazioni di automobili nel continente, attualmente 9,2 milioni nel 2022 rispetto rispetto ai 15 milioni del 2019, offre una solida conferma alle critiche avanzate dalle case automobilistiche, anche per le conseguenze che ne potrebbero derivare per il complesso delle attività che danno lavoro a 12,8 milioni di persone con un impatto dell’8% sul Pil europeo e che finanziano il 30% degli investimenti in ricerca e sviluppo. Nel dettaglio i produttori contestano la ristrettezza dei tempi messi a disposizione per gestire la transizione verso i motori elettrici e l’efficacia stessa dei provvedimenti per la finalità di ridurre le emissioni nocive.
L’incremento dei costi medi finali per l’acquisto delle automobili elettriche, circa 38 mila euro rispetto ai 22 mila euro delle auto con motori a benzina diesel, risulta insostenibile anche per i potenziali acquirenti, soprattutto se si tiene conto della ridotta autonomia chilometrica delle batterie e della scarsità delle reti di rifornimento. Condizioni che prefigurano anche una rapida obsolescenza delle tecnologie attualmente utilizzate sui veicoli elettrici. In parallelo, la prospettiva di una consistente svalutazione delle nuove vetture con motori termici, in particolare quelli ibridi che riducono sensibilmente le emissioni, sta orientando i consumatori a prolungare l’utilizzo delle vetture in uso con effetti negativi sulla produzione e sull’ambiente.
Le auto elettriche, pur essendo costose, richiedono una drastica riduzione della componentistica e dei fornitori e un parallelo aumento di quelli delle materie prime, le cosiddette terre rare, che sono per la gran parte nella disponibilità delle autorità cinesi. Un ulteriore vantaggio competitivo che si aggiunge a quelli relativi al basso costo del lavoro, all’ampia disponibilità di tecnologie digitali funzionali alla gestione delle auto elettriche e alla possibilità di progettare e assemblare i nuovi modelli avvalendosi di partner disponibili senza sopportare i costi di ristrutturazione e le eventuali chiusure dei vecchi stabilimenti.
Non è uno scenario futuribile, è quanto sta già avvenendo dato che il concorso cinese alla promozione delle nuove vetture è aumentato di 25 volte nel corso degli anni 2000. Per l’allocazione dei nuovi investimenti il contesto europeo risulta ulteriormente svantaggiato dall’essere un mercato di mera sostituzione del parco macchine esistente.
Le conseguenze per il settore dell’automotive italiano possono essere persino più rilevanti per l’importanza della produzione di componenti delle vetture con motori termici. Sono circa 5.300, per il 90% medie e piccole, le aziende caratterizzate da questa missione per un fatturato di 105 miliardi di euro e di 2 miliardi di investimenti in ricerca e sviluppo che contribuiscono in modo cospicuo allo sviluppo dell’industria manifatturiera e delle esportazioni. Per l’Anfia (Associazione nazionale filiera industria automobilistica), le conseguenze delle scelte europee possono comportare un serio rischio di sopravvivenza per 445 aziende con una perdita di oltre 70 mila posti di lavoro sui 260 mila attualmente occupati nella produzione di autovetture e di componenti. Ma le innovazioni sono destinate anche a riflettersi sulle persone che lavorano nelle sedi dei concessionari, nelle riparazioni dei veicoli e nella distribuzione di carburanti. Attività che forniscono lavoro a circa 570 mila persone per un valore della produzione equivalente al 16% del Pil.
Sono segmenti di attività destinati a fare i conti con una rivoluzione dei prodotti e dei processi nell’ambito internazionale con un’accelerazione delle alleanze e delle fusioni tra le case automobilistiche, e negli ambiti territoriali con una riduzione del numero degli stabilimenti, dei fornitori, un riposizionamento delle missioni aziendali, dei servizi e delle professioni.
Le nuove immatricolazioni di automobili nel corso del 2022 , 1,3 milioni, ci riportano sui valori di dieci anni fa e nel frattempo è ulteriormente invecchiato il parco vetture, oltre il 35% delle quali risulta di età superiore ai 15 anni e precedenti a euro 4: per il 90% con motori a benzina (46%) o diesel (44%); il 7% ibride; il 3,1%, quello marginale delle auto elettriche. Nelle vendite dello scorso anno cresce in modo significativo, il 37%, la quota delle vetture ibride. La produzione e le vendite del 2022 hanno risentito della carenza delle forniture di componenti tecnologiche e delle scelte aziendali finalizzate a ottimizzare l’utilizzo degli impianti alternato a cicli di cassa integrazione del personale per risparmiare sui costi dell’energia e del lavoro.
Le caratteristiche della produzione e delle vendite di automobili in Italia rappresentano in modo emblematico le conseguenze del fondamentalismo ambientalista che sembra animare alcune scelte delle istituzioni europee. Prive di valutazione sulle conseguenze economiche e sociali delle decisioni assunte e, soprattutto, prive dei mezzi e degli strumenti in grado di sostenere gli assetti produttivi degli Stati aderenti.
L’ulteriore esempio di queste improvvisazioni è rappresentato dalle nuove proposte della Commissione europea di introdurre una nuova regolazione Euro 7 per i veicoli diesel a partire dal 2025, che imporrebbe ai costruttori di investire nuove risorse per motori destinati a esaurire la loro funzione entro pochi anni. La strategia europea per gestire la transizione energetica fa leva sulle norme e i regolamenti, fino al punto di imporre l’utilizzo delle tecnologie ai produttori, mentre nelle altre parti del mondo si procede mobilitando risorse e incentivi. L’esigenza di cambiare l’approccio sembra essere avvertita dalla Commissione Ue con le recenti proposte di consentire immediatamente agli Stati aderenti di erogare aiuti alle imprese per obiettivi ritenuti strategici fino al 2025 e di promuovere un fondo europeo per finanziare gli investimenti funzionali a rafforzare il tessuto industriale europeo.
La mobilitazione diretta delle risorse in ambito europeo diventa la condizione essenziale per evitare che il canale degli aiuti di Stato penalizzi i Paesi con un elevato debito pubblico. In assenza del nuovo fondo, la toppa degli aiuti di stato rischia di essere peggiore del buco.
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