I media italiani hanno riservato molto più spazio alla passerella di Elon Musk ad Atreju che a quella del premier inglese Rishi Sunak. Può darsi che il tycoon di Tesla (ma anche di X-ex-Twitter e dei web-satelliti Starlink) sia diventato oggi un leader politico più importante del primo ministro di Sua Maestà. I media anglofoni – ormai annoiati da Elon “larger than life” – sono stati però molto più attenti a Sunak: spuntato – un po’ a sorpresa – un sabato pomeriggio a Roma, a un festival fantasy inventato una ventina d’anni fa da un gruppo di giovani post-fascisti italiani. Che adesso hanno issato la loro leader a palazzo Chigi.



Il Financial Times ha vistosamente arricciato il naso, anche se trasudando un fastidio essenzialmente estetico – classico sull’asse City-Oxbridge – per un qualunque Premier mediterraneo, per di più di destra sovranista continentale. Di più ancora: a un anno dalle elezioni generali in Gran Bretagna, FT è nettamente schierato a favore del Labour di Keir Starmer, nello sforzo di chiudere l’era dell’estremismo tory di Boris Johnson e avviare un possibile dietrofront neo-globalista di Brexit.



Al contrario Politico.eu – forse la voce più importante del progressismo liberal transatlantico – non ha avuto timore di titolare sull’endorsement di Sunak a Meloni come “nuova Thatcher”. Un complimento interessato: per il gabinetto conservatore inglese la battaglia sul contenimento dei flussi migratori nella Manica è oggi più attuale (più elettorale) di quanto lo sia per il Governo italiano di destra-centro. E Meloni resta per Sunak un “benchmark” prezioso in Occidente. Lo è soprattutto il “piano albanese”, versione evoluta e più politicamente palatabile della rozza opzione-Ruanda di Johnson, bocciata perfino dalla Corte suprema inglese. Per questo il premier britannico ha voluto spendere un complimento come minimo prematuro per Meloni: ancora lontana dalla statura della Lady di Ferro, sia nel suo Paese che sullo scacchiere geopolitico. Per di più i valori e le linee di FdI sono indubitabilmente diversi da quelli dell’ortodossia conservatrice della Thatcher: vera “madre” della svolta neo-liberista e anti-statalista che ha plasmato quarant’anni di storia globale. Che ha allineato gli Usa reaganiani nel contrasto al primo choc petrolifero mediorientale; ha preparato la caduta del Muro in Europa, ha influenzato perfino la grande modernizzazione post-maoista in Cina.



Ancora poche settimane fa, Meloni veniva avvicinata – peraltro a torto – a Liz Truss: la disastrosa premier per 100 giorni, caduta quando la leader FdI formava il suo Governo. Ora invece il successore di Truss rispolvera il “radicalismo” della leggendaria prima donna premier a Londra: come Meloni a Roma, sempre partendo da destra (anche in Gran Bretagna il Labour non ha ancora portato una donna a Downing Street). Una leader donna – Meloni – che ha ricevuto in eredità da Brexit Ecr, l’europartito che proprio la Thatcher aveva fondato alla nascita dell’europarlamento. E qui il parallelo proposto da Sunak si fa meno mediatico e più politicamente sostanzioso e stimolante.

Thatcher è stata la frusta costante di Bruxelles: dell’Europa burocratica che – nei fatti – si è solo riverniciata di tecnocrazia più amica del mercato e della società, senza però mai attenuare l’approccio statalista “carolingio” condiviso da Francia e Germania. Ecco: il ruolo di “oppositrice interna”, anzi di partner critico – ancorché solido e con la stazza di un grande Paese fondatore – dentro le stanze dei bottoni Ue, è quello che si va forse preparando per Meloni proprio in questi giorni. E che, forse, si potrà definirà fra pochi mesi dopo il voto europeo e il rinnovo degli organigrammi Ue. E non sorprende che Sunak provi a non lasciare a Starmer l’esclusiva di una “post-Brexit” (tutt’altro che teorica nel ridisegno dei contenitori sovranazionali come la Nato). A Strasburgo – e in prospettiva a Bruxelles – Londra c’è. Ci resta con il “suo” Ecr tory: guidato da “Margaret” Meloni (e anche attraverso Mario Draghi se gli verrà conferito qualche alto incarico).

La foto dell’incontro notturno a Bruxelles fra la premier italiana, il cancelliere tedesco Olaf Scholz e il presidente francese Emmanuel Macron è stata letta dall’Italia come “resa dei conti” su Mes e regole finanziarie. Osservata da Londra – e forse anche da Washington – la stessa scena ha ritratto Meloni come attuale interlocutrice/controparte di un confronto interno all’Ue di cui Berlino e Parigi non possono fare a meno: anche se lo vorrebbero, com’è a lungo avvenuto in passato. La stessa postura di palazzo Chigi sui due fronti geopolitici – in Ucraina e a Gaza – è in Italia più definita all’esterno e condivisa all’interno di quanto lo sia in Germania e in Francia. E a proposito: l’Italia – attraverso Leonardo con sponde in Gran Bretagna e Usa – sta partecipando a piani di innovazione militare che in Ue continuano a non partire. Il Governo Meloni sta intanto per ora pilotando il Pnrr nella transizione eco-energetica senza i violenti sussulti sociopolitici che stanno scuotendo l’Olanda, continuano ad agitare la Francia e minacciano seriamente la coalizione rosso-verde in Germania.

Se il “radicalismo thatcheriano” evocato da Sunak in via quasi autentica è sinonimo di capacità di provocare cambiamenti reali perché realistici, Meloni è certamente in gara: anche se quasi ancora ai blocchi di partenza. Negli indici di gradimento globali, la premier italiana è comunque in sicura ascesa, mentre ad esempio Macron è già quasi un ex-beniamino. Dopo aver fallito all’Assemblea nazionale la fiducia su una nuova normativa sui migranti, “la sua carriera politica sembra volgere anticipatamente al termine”. Lo ha scritto sempre Politico.com. Sui media italiani è apparsa a mala pena una notiziola.

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